DOPARSI PER LAVORARE COME SCHIAVI
In migrazione – 2014
L’indagine sull’uso di sostanze illecite da parte di alcuni braccianti sikh per sopportare la fatica del lavoro nei campi dell’Agro pontino
Un esercito silenzioso di uomini piegati nei campi a lavorare a volte tutti i giorni senza pause.
Raccolta manuale di ortaggi, semina e piantumazione per 12 ore al giorno filate sotto il sole,
chiamano padrone il datore di lavoro, subiscono vessazioni e violenze di ogni tipo. Quattro
euro l’ora nel migliore dei casi, con pagamenti che ritardano mesi, e a volte mai erogati,
violenze e percosse, incidenti sul lavoro mai denunciati e “allontanamenti” facili per chi tenta
di reagire.
Persone che per sopravvivere ai ritmi massacranti e aumentare la produzione dei “padroni”
italiani sono letteralmente costretti a doparsi con sostanze stupefacenti e antidolorifici che
inibiscono la sensazione di fatica e stanchezza. Una forma di doping vissuto con vergogna e
praticato di nascosto perché contrario alla loro religione e cultura, oltre a essere severamente
contrastato dalla propria comunità. Eppure per alcuni lavoratori sikh si tratta dell’unico
modo per sopravvivere ai ritmi di lavoro imposti, insostenibili senza quelle sostanze.
È la drammatica condizione che vivono molti uomini della comunità Sikh dell’agro pontino,
alle porte della Capitale. Ai margini delle strade che circondano il Parco Nazionale del Circeo,
luogo di incontro di ecosistemi, biodiversità, storia, leggende e di villeggiatura della “Roma
bene”, della politica e dell’imprenditoria, migliaia di “nuovi schiavi” vedono scorrere la loro
vita praticando un lavoro faticoso, disumano, inimmaginabile per una società che si definisce
civile e un Paese democratico. In un’area dove la presenza delle mafie è radicata anche
nel mondo agricolo e imprenditoriale, che vede spesso dominare il lucroso business delle
ecomafie, favorito da intimidazioni a istituzioni, imprenditori, forze dell’ordine e a magistrati,
si consolida con metodi antichi e violenti la nuova schiavitù: esseri umani umiliati, sfruttati, non
pagati e costretti a doparsi per accrescere i profitti del padrone.
Una comunità che per cultura, religione e indole risulta accogliente, pacifica e dedita al lavoro,
che subisce in silenzio lo sfruttamento cui è sottoposta, che auspica l’intervento delle Istituzioni
per fermare un sistema che implicitamente, e a volte esplicitamente, impone sostanze dopanti
ai suoi nuovi schiavi, con danni alla salute, alla dignità personale, all’identità e integrità
dell’intera comunità.
Una nuova forma di riduzione in schiavitù intercettata da In Migrazione intervistando i braccianti
indiani nella zona agricola in provincia di Latina: l’assunzione di sostanze dopanti per non
sentire la fatica e il dolore, per sopportare meglio la malattia, per osservare i ritmi imposti dal
padrone e riuscire a sopravvivere.
Raccolta manuale di ortaggi, semina e piantumazione per 12 ore al giorno filate sotto il sole,
chiamano padrone il datore di lavoro, subiscono vessazioni e violenze di ogni tipo. Quattro
euro l’ora nel migliore dei casi, con pagamenti che ritardano mesi, e a volte mai erogati,
violenze e percosse, incidenti sul lavoro mai denunciati e “allontanamenti” facili per chi tenta
di reagire.
Persone che per sopravvivere ai ritmi massacranti e aumentare la produzione dei “padroni”
italiani sono letteralmente costretti a doparsi con sostanze stupefacenti e antidolorifici che
inibiscono la sensazione di fatica e stanchezza. Una forma di doping vissuto con vergogna e
praticato di nascosto perché contrario alla loro religione e cultura, oltre a essere severamente
contrastato dalla propria comunità. Eppure per alcuni lavoratori sikh si tratta dell’unico
modo per sopravvivere ai ritmi di lavoro imposti, insostenibili senza quelle sostanze.
È la drammatica condizione che vivono molti uomini della comunità Sikh dell’agro pontino,
alle porte della Capitale. Ai margini delle strade che circondano il Parco Nazionale del Circeo,
luogo di incontro di ecosistemi, biodiversità, storia, leggende e di villeggiatura della “Roma
bene”, della politica e dell’imprenditoria, migliaia di “nuovi schiavi” vedono scorrere la loro
vita praticando un lavoro faticoso, disumano, inimmaginabile per una società che si definisce
civile e un Paese democratico. In un’area dove la presenza delle mafie è radicata anche
nel mondo agricolo e imprenditoriale, che vede spesso dominare il lucroso business delle
ecomafie, favorito da intimidazioni a istituzioni, imprenditori, forze dell’ordine e a magistrati,
si consolida con metodi antichi e violenti la nuova schiavitù: esseri umani umiliati, sfruttati, non
pagati e costretti a doparsi per accrescere i profitti del padrone.
Una comunità che per cultura, religione e indole risulta accogliente, pacifica e dedita al lavoro,
che subisce in silenzio lo sfruttamento cui è sottoposta, che auspica l’intervento delle Istituzioni
per fermare un sistema che implicitamente, e a volte esplicitamente, impone sostanze dopanti
ai suoi nuovi schiavi, con danni alla salute, alla dignità personale, all’identità e integrità
dell’intera comunità.
Una nuova forma di riduzione in schiavitù intercettata da In Migrazione intervistando i braccianti
indiani nella zona agricola in provincia di Latina: l’assunzione di sostanze dopanti per non
sentire la fatica e il dolore, per sopportare meglio la malattia, per osservare i ritmi imposti dal
padrone e riuscire a sopravvivere.