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Catalogna-Spagna, ecco come si può ricucire lo strappo

8 Ottobre 2017

Le nuove tensioni affondano le radici nella questione fiscale. E nell’eliminazione di 14 articoli dello statuto locale. Ripristinarli riavvicinerebbe Barcellona e Madrid. Il ricercatore Demarchi a L43.

Dopo le schermaglie dialettiche e le violenze fisiche che hanno caratterizzato il referendum per l’indipendenza della Catalogna, rimangono ora sul tappeto domande squisitamente politiche e legali, utili a capire le possibili ripercussioni della consultazione. E i margini per una riconciliazione che, al momento, sembra lontana. Dal voto del primo ottobre esce piuttosto malconcio il premier spagnolo Mariano Rajoy, criticato a destra e a sinistra per la sua gestione del dossier, secondo i critici troppo autoritaria.

IL CONVITATO DI PIETRA EUROPEO. Mentre, attraverso uno sciopero generale etichettato come “secondo referendum” – al quale però non hanno aderito due dei maggiori sindacati – , continua a esprimersi la passione secessionista di parte della popolazione, è da vedere fino a che punto la Generalitat catalana riuscirà a portare avanti operativamente, e legalmente, il sogno indipendentista e con quale tipo di mediazione politica, tenendo anche conto di quella parte di Catalogna che l’8 ottobre ha sfilato per dire “No” all’indipendenza. Anche l’Europa, finora il grande convitato di pietra, comincia timidamente a dire la sua, ma sembra ancora lontana una sua piena partecipazione in qualità di mediatrice tra il governo spagnolo e gli indipendentisti catalani. Parla di tutto questo a Lettera43.it Giacomo Demarchi, ricercatore in Storia delle Istituzioni Politiche presso il Dipartimento di Studi Storici all’Università di Milano e collaboratore della rivista Spagna Contemporanea.

DOMANDA. È un’esagerazione parlare della più grave crisi nella recente storia dello stato spagnolo?
RISPOSTA. No, nella misura in cui da un lato arriva un anno prima del quarantesimo anniversario della Costituzione del 1978, dopo la fine del franchismo, e dall’altro viene messo in dubbio, dopo molti anni di relativa tranquillità, seppur con problemi, uno degli architravi di tale Costituzione, ossia la questione dell’autonomia regionale.

D. Cosa pensa del discorso di Felipe VI, vista anche la posizione finora piuttosto defilata del monarca?
R. Il re ha mantenuto un ovvio profilo distaccato, per quanto abbastanza duro e deciso, sottolineando la responsabilità della Generalitat nel mettersi fuori dal sistema costituzionale.

D. Con Zapatero le cose andavano abbastanza bene: come si è arrivati a tutto questo?
R. Il momento critico chiave è il 2010, quando, su istanza dei popolari, che erano all’opposizione, e dopo quattro anni di “riflessione” la Corte Costituzionale spagnola decise di eliminare 14 articoli dello statuto di autonomia catalana, già approvato nel 2006, non solo dalla Generalitat e dal parlamento spagnolo, ma attraverso un referendum nella stessa Catalogna. Articoli che toccavano temi importanti, quali la preminenza della lingua catalana, la capacità di legislare in materia fiscale o la creazione di un organo di controllo di costituzionalità interno alla Catalogna. È a partire da questo momento che ci si è avviati allo scontro.

D. Su quale questione in particolare?
R. Soprattutto su quella fiscale: mentre a País Vasco e Navarra viene permesso di concordare con lo Stato centrale il contributo fiscale in cambio di certi servizi, questo non avviene con la Catalogna.

D. Per il resto, però, lo statuto di autonomia catalano ha offerto alla regione una buona dose di libertà.
R. Sì, soprattutto nel campo culturale e linguistico.

D. Quindi, al di là dell’idealismo secessionista catalano, c’è di mezzo una mera questione di denaro?
R. La questione è un po’ più complessa: al di là degli “egoismi” individuali, il problema è che in Spagna manca una camera federale che permetta alle varie regioni di discutere su come distribuire le risorse e questo crea appunto figli e figliastri, ossia regioni con maggiore controllo fiscale rispetto ad altre.

D. Una problematica che si applica non solo alla Spagna, ma anche ad altre parti d’Europa.
R. Senz’altro: basti pensare alla diatriba tra fiamminghi e valloni in Belgio.

D. Come mai il nazionalismo basco, a differenza a quello catalano, si è “calmato”?
R. Innanzitutto bisogna considerare che, storicamente parlando, il periodo terroristico nella lotta dei baschi si manifestò anche prima della transizione, cioè sotto il franchismo, e quindi sotto un regime autoritario. Sotto il nuovo Stato democratico spagnolo il País Vasco è riuscito ad ottenere un alto livello di autonomia, tra cui un diritto proprio e, appunto, un controllo sulle imposte. A proposito del nazionalismo catalano, c’è qualcosa di paradossale.

D. Cosa?
R. Per noi in Italia il nazionalismo è tendenzialmente associato al conservatorismo, mentre qui si parla di un movimento che ha anche forti componenti di sinistra, a cominciare dall’ispirazione repubblicana. Basti pensare a una delle sue componenti: Esquerra Republicana de Catalunya, laddove la parola ‘esquerra’ significa proprio ‘sinistra’.

D. E quindi questo si contrappone ‘in primis’ al fatto che la Spagna è tuttora uno stato monarchico.
R. Sì e ricordiamo che durante la Repubblica spagnola negli Anni 30 si era giunti a una convivenza democratica, ma poi il franchismo ribaltò tutto questo, imponendo i suoi diktat centralizzatori, al punto che era vietato l’uso del catalano. Con la fine del franchismo, tornò una democrazia, ma anche un re: unico caso storico di retroversione monarchica nel XX secolo.

D. Dai critici il Partido Popular di Rajoy viene associato, soprattutto dopo i recenti episodi di violenza, al franchismo: esiste un qualche legame tra questo partito e il vecchio regime?
R. Non esiste in realtà un legame ideologico diretto tra i due, ma se si guarda alle persone che hanno dato vita al partito, oltre a quelle di estrazione cattolica e tecnocratico-liberista, troviamo un personaggio come Manuel Fraga Iribarne, che fu uno dei pilastri del franchismo, oltre a certi quadri a loro volta di estrazione franchista.

D. A questo punto, mentre Pablo Sànchez, segretario del Psoe attacca Rajoy dichiarando che «Il governo ha superato ogni limite di incapacità», la sinistra radicale di Unidos Podemos ne chiede addirittura le dimissioni. Cosa pensa dello scenario di una nuova coalizione di governo a sinistra che sappia gestire meglio, politicamente, la questione catalana?
R. È uno scenario a mio parere auspicabile, visto che l’atteggiamento di Rajoy e dell’intera compagine governativa è stato criticato in generale proprio per non aver agito a livello politico, bensì solo in nome della legge e dell’ordine pubblico. Ma ora esiste un paradosso.

D. Quale?
R. Che Rajoy dichiara addirittura che il referendum non c’è stato tout court.

D. Volendo fare l’avvocato del diavolo, si può dire che questo referendum, che non ha ottenuto nemmeno un quorum, non è inattaccabile…
R. Dal punto di vista strettamente legale questo è vero, ma dal punto di vista politico nessuno in parlamento, tranne Ciudadanos, approva il modo in cui Rajoy si è mosso e continua a muoversi in questo frangente.

D. Ora si prospetta la possibilità di applicare l’articolo 155 che comporterebbe addirittura la sospensione dell’autonomia catalana.
R. Tenendo a mente che l’articolo 155 non è mai stato applicato, ricordiamo anche l’articolo 8, che prevede l’uso delle forze armate per mantenere l’integrità territoriale della Spagna: tutto questo potrebbe portare a uno stato di emergenza con conseguenze imprevedibili.

D. Resta tuttavia fuori luogo sventolare lo spettro della “guerra civile”…
R. Assolutamente, ma non dimentichiamo la tensione creata durante il governo Zapatero quando venne dichiarato lo stato di emergenza a seguito dello sciopero dei controllori di volo, che vennero sostituiti da personale militare. E questo generò una levata di scudi contro il governo.

D. E come guardare all’indifferenza, se non opposizione, di buona parte delle persone che vivono in Catalogna all’idea d’indipendenza?
R. Bisognerà certo tenerne conto, ed ecco perché un referendum ufficiale, pattato, con un quorum, forse sarebbe stato politicamente più opportuno. Consideriamo anche il fatto che membri dei Mossos (la polizia locale, ndr) hanno chiuso molti seggi. E poi ci sono anche diversi membri della classe padronale catalana che hanno trasferito o minacciato di trasferire i loro investimenti altrove in Spagna.

D. Perché?
R. Per motivi di sicurezza, proprio per il timore che la Catalogna esca dalla zona euro.

D. Quindi l’opposizione all’indipendenza è trasversale, e va al di là della classe operaia di origine non catalana?
R. Sì, come è trasversale la fascia della popolazione che è indipendentista.

D. Una soluzione a questa trappola in cui Rajoy ha spinto il governo spagnolo potrebbe essere un dialogo in cui magari vengano ripristinati quei famosi 14 articoli dello statuto di autonomia cassati dalla Corte Costituzionale?
R. Questa ipotesi, accompagnata da un dialogo politico, potrebbe essere senz’altro una soluzione migliore rispetto alla mano di ferro legalistica adottata da Rajoy.

D. E l’Europa, che finora ha assunto una posizione pilatesca, come potrebbe aiutare nella mediazione?
R. Il problema di base è che l’Europa non è ancora un’entità federale, bensì un patto tra Stati. Se poi guardiamo ai singoli Paesi, quali di questi possono sedersi tranquillamente a mediare su un caso come quello della Catalogna senza che poi ci sia una richiesta di mediazione da parte di entità secessioniste all’interno dello stato stesso?

D. Di quali Stati si parla?
R. Comincerei col Belgio, ma poi c’è anche il caso della Scozia, anche se ora c’è di mezzo la Brexit. E anche il sistema centralistico francese ha dei problemi con la Corsica e con la Bretagna. Infine la Germania stessa ha problemi d’identità culturale al suo interno: parlo della Baviera e della Franconia.