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Tatmadaw: l’Esercito del Myanmar e i rapporti con gli alleati occidentali

15 Settembre 2017

Nel bel mezzo della crisi della minoranza Rohingya, capiamo quali sono i rapporti tra USA, UE ed Esercito del Myanmar

La crisi della minoranza Rohingya in Myanmar, di cui si parla ampiamente in tutte le sedi diplomatiche, arriva in un momento cruciale per il Paese: dopo lunghi anni di sanzioni ed isolamento derivanti dal regime militare dei Tatmadaw, il Myanmar sembra aver intrapreso la via di una graduale democratizzazione e, di conseguenza, è tornato a giocare un ruolo nella diplomazia internazionale.

Il Myanmar, una volta conosciuto come Birmania (colonia britannica fino al 1948), è stato sottoposto ad una dura dittatura militare fin dal 1962, quando un Colpo di Stato portò al potere il Generale Ne Win. Nelle dinamiche tipiche della Guerra Fredda, nonostante il partito di Ne Win si proponesse di trovare una “Via Birmana al Socialismo”, lo scontro che lo vide opporsi al Partito Comunista Birmano portò il Paese nell’area di influenza statunitense. Questo fino al 1988 quando, con la Guerra Fredda ormai prossima alla fine, gli Stati Uniti reagirono alla violenta ondata repressiva del regime e inaugurarono una stagione di sanzioni che, rapidamente, isolarono quasi totalmente il Paese.

In questi anni, l’opposizione fu guidata quasi totalmente da Aung San Suu Kyi che, per questo, fu isolata nella sua abitazione per più di venti anni. Quando, a partire dal 2008, la giunta militare al potere cominciò ad aprirsi e a progettare un graduale ritorno ad un ordinamento democratico, gli occhi del mondo tornarono a guardare con interesse ad Aung San Suu Kyi che sembrava essere la candidata più ovvia a guidare il nuovo corso democratico birmano. In effetti, liberata nel 2010, l’anno successivo viene insignita del Premio Nobel per la Pace e, nel 2015, giuda il suo partito verso la vittoria.

Le aspettative del mondo per l’operato di Aung San Suu Kyi, che nel 2016 viene nominata Consigliere di Stato (in pratica, Primo Ministro), erano molto alte in virtù del grande capitale di credibilità politica accumulato nei lunghi anni di prigionia. L’attuale crisi della minoranza Rohingya, che ha visto il Premio Nobel schierarsi a difesa dei militari e della loro azione repressiva, ha colto di sorpresa molto osservatori internazionali: le molte polemiche seguite alla gestione della crisi hanno portato il Consigliere di Stato a disertare la recente Assemblea Generale dell’ONU.

Di certo la situazione è molto complessa: non bisogna dimenticare che i birmani costituiscono solo i tre quarti della popolazione del Myanmar e che, da sempre, si sono avuti forti conflitti con le numerosissime minoranze che abitano nel Paese (condizione che, tra l’altro, è comune alla gran parte dei Paesi dell’area). La delusione che molti osservatori internazionali hanno provato per l’operato di Aung San Suu Kyi, dunque, non tiene conto di alcune considerazioni: in primo luogo, è possibile che il Premio Nobel, che si è battuto fortemente per i diritti della popolazione birmana, non sia necessariamente così sensibile rispetto ai diritti di altri gruppi etnici; in secondo luogo, più probabilmente, non è da escludere che un contrasto con i Tatmadaw potrebbe risultare fatale per il fragile percorso di democratizzazione del Paese e che, allo stato attuale, il Consigliere di Stato non abbia visto altra soluzione che sostenere la linea dei militari.

Questo, però, ha messo Paesi come gli Stati Uniti o l’Unione Europea in grave imbarazzo: fin dalle aperture del 2008 da parte dei Tatmadaw, gli USA prima, l’UE poi, hanno cominciato a riaprire canali diplomatici e, soprattutto, commerciali e militari con Naypyidaw.

Il primo a cambiare atteggiamento a riguardo è stato l’ex-Presidente USA Barack Obama; ma perché, verrebbe da chiedersi, un regime militare che è al potere da più di cinquant’anni decide all’improvviso di intraprendere una strada che lo porti verso un ordinamento più democratico? La prima considerazione che viene da fare è che, isolato dai suoi vecchi alleati occidentali, il Myanmar si è trovato, dal 1988 in poi, ad aver rapporti commerciali e supporto militare soprattutto dalla Cina: questo rapporto, però, per i Tatmadaw, non è esattamente idilliaco.

In primo luogo, la tradizionale inclinazione dei Governi birmani non è stata di vicinanza alla Cina, di cui temono l’egemonia, ma verso i vicini Paesi dell’Asia sud-orientale: il fatto che i militari fossero costretti a valersi di forniture esclusivamente cinesi, rafforzava i questi il timore di divenire sempre di più un ‘feudo’ di Pechino.
In secondo luogo, non bisogna dimenticare che, in passato, il Governo cinese ha rifornito di armi i gruppi armati della minoranza Wa, presente nel nord-est del Paese.

Da parte statunitense, invece, l’interesse è, da un lato, quello di spostare, attraverso la democratizzazione, il modello economico del Paese in direzione del mercato statunitense, dall’altro, quello di tornare ad avere un alleato militare in una zona chiave del sud-est asiatico.

Non mancano, però, i problemi: a quanto pare, il Myanmar resta uno dei pochi Paesi che, seppur in maniera non ufficiale, mantiene legami commerciali con la Corea del Nord. Questo a portato il successore di Obama, Donald Trump, a congelare la sospensione delle sanzioni e la riapertura dei rapporti commerciali e militari con Naypyidaw. Non c’è dubbio, in ogni caso, che l’interesse USA è che la politica di riavvicinamento al Myanmar continui proprio in virtù del contrasto che oppone Washington a Pyongyang.

Per quanto riguarda l’Unione Europea, il discorso è lievemente differente. In assenza di una politica estera unitaria, l’UE ha mantenuto un atteggiamento più ideologico che pratico nei confronti del Myanmar, più ‘di principio’, potremmo dire. A differenza che per gli USA, quindi, per l’UE risulta molto più difficile avere un approccio pragmatico al problema. Da qui l’immenso scalpore che, negli ultimi giorni, è stato suscitato dal diffondersi della notizia, fino a quel momento ignorata, della riapertura dei rapporti con Naypyidaw.

Con l’apertura democratica dei Tatmadaw, infatti, anche l’Unione Europea aveva firmato accordi per aiuti economici che seguivano il motto ‘Everything but Arms‘ (Ogni Cosa ma Non le Armi): la vendita di sistemi bellici veniva esclusa dagli accordi di cooperazione economica. Questo però riguarda la politica ufficiale di Bruxelles. Altri Paesi, primi tra tutti Francia e Gran Bretagna, che nel sud-est asiatico avevano vaste colonie ed interessi, e Germania, che ha una lunga storia di rapporti bilaterali con Naypyidaw, hanno cominciato a prendere contatti per sviluppare collaborazioni ancor più vantaggiose. Da questo punto di vista, la modernizzazione delle Forze Armate birmane è un affare troppo allettante per farselo sfuggire.

Nel 2013, l’allora Presidente del Myanmar ed ex-Generale, U Thein Sein, visitò molti Paesi dell’UE. Lo scorso aprile, è stata la volta del Comandante in Capo delle Forze Armate, il Generale Min Aung Hlaing: dopo aver visitato Germania ed Austria, Hlaing si è recato a Bruxelles, dove ha avuto colloqui con i rappresentanti UE (oltre che con quelli francesi e britannici) per poi proseguire per l’Italia (grande esportatore di armi da guerra).

Allo scoppio della crisi dei Rohingya, è scoppiato lo scandalo: i Paesi europei sono stati accusati, da larghi strati dell’opinione pubblica, di collaborare con un regime sanguinario. Di certo, l’assenza di una politica estera comune a tutta l’Unione fa sì che i singoli Paesi gestiscano i propri rapporti commerciali e militari in maniera individuale, lasciando a Bruxelles poco più che una posizione ‘di principio’.

Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, gli USA hanno una politica estera pragmatica che gli permette di agire per i propri interessi seguendo una visione strategica di lungo periodo: in quest’ottica, il processo di riapertura dei rapporti commerciali e militari (o la sospensione di tale processo) è un’arma che Washington utilizza per trarre a sé il Myanmar ed allontanarlo dalla sfera di influenza cinese e dai commerci occulti con Pyongyang.

Infine, il Governo del Myanmar, diviso tra il potere militare dei Tatmadaw (che ancora occupano ruoli chiave) e i democratici guidati da Aung San Suu Kyi, cerca un equilibrio che eviti al Paese di ritornare indietro e ripiombare in una dittatura.

In questa situazione, la crisi dei Rohingya non mostrare soluzioni a breve termine: la cosa, al di là del problema umanitario, è alquanto inquietante dato che, a trarre vantaggio dalla situazione, potrebbero essere i gruppi islamisti che, già attivi nell’area, potrebbero trovare in una minoranza musulmana oppressa un terreno fertile per reclutare nuovi adepti.