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Uno strano triangolo: le sanzioni USA e i rapporti fra Mosca e Teheran

11 Agosto 2017
Ennesimo scontro fra la Casa Bianca e il Campidoglio; e sembra di assistere al riemergere dell’‘asse del male’ che tanta parte ha avuto nello strutturare la politica estera di George W. Bush
Lo scorso 2 agosto, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un nuovo pacchetto di sanzioni contro la ‘triade’ Russia-Iran-Corea del Nord. Il provvedimento (votato da una larga maggioranza bipartisan: 419 a 3alla Camera dei Rappresentanti; 98 a 2 al Senato) è stato ratificato dal Presidente Donald Trump, che si è tuttavia impegnato a dare applicazione alle ‘preferenze’ del Legislativo ‘in maniera coerente con l’autorità costituzionalmente concessa al Presidente di gestire i rapporti internazionali’. Si tratta -da un certo punto di vista- dell’ennesimo scontro fra la Casa Bianca e il Campidoglio; uno stato di cose che, in questi mesi, si è manifestato in diverse occasioni. D’altro canto, dietro a questa vicenda, sembra di assistere al riemergere -in forma rivista e corretta- di quell’‘asse del male’ che tanta parte ha avuto nello strutturare la politica estera di George W. Bush. Mosca, Teheran e Pyongyang rappresentano oggi, agli occhi di vari congressmen, i tre principali pericoli che gli Stati Uniti devono affrontare sulla scena globale (la prima) o regionale. Anche se per ragioni diverse, esse rappresentano, inoltre, rivali ‘tradizionali’ di Washington, capaci di suscitare, nell’opinione pubblica, reazioni di rigetto ‘istintivo’ facili da capitalizzare in termini politici e di consenso elettorale.
E’ questa la ragione prima del consenso bipartisan che il pacchetto ha raccolto e che ha di fatto impedito al Presidente di porre un veto che sarebbe stato facilmente aggirato in seconda votazione. Per le sanzioni hanno votato tanto i repubblicani mainstream quanto gli interventisti democratici, preoccupati, i primi, della crescita dell’influenza di Mosca sulla scena internazionale, i secondi della parte che Teheran sta giocando, fra l’altro, in Siria in favore di Bashar al-Assad e in Libano a sostegno del movimento Hezbollah. Si tratta di una convergenza d’interessi per vari aspetti anomala, ma che -ad esempio nel caso della Siria- si era già affacciata negli anni della seconda Amministrazione Obama. Si tratta, inoltre, dell’ennesima prova della rivalità che contrappone il Presidente ad un Congresso chiaramente impegnato a contenerne gli spazi d’azione, anche con manovre ‘trasformistiche’ politicamente rischiose. Resta da capire se una simile convergenza si potrà ripetere nel futuro e quanto spesso. La legge ‘omnibus’ approvata dal Congresso, se per certi aspetti accontenta tutti, per altri lascia parecchi insoddisfatti, proprio per la sua natura ibrida e per le ricadute indesiderate che rischia di avere in alcuni scenari nei quali la stessa amministrazione sembra volersi muovere con cautela.

E’ soprattutto sulla questione di rapporti fra Mosca e Teheran che i provvedimenti votati dal Congresso rischiano di impattare.
Da tempo, fra Russia e Iran è emersa una robusta convergenza di interessi, rafforzata dal nuovo dinamismo di Mosca in Medio Oriente e in Asia. In Siria come in Afghanistan  -per citare solo due esempi-  i due Paesi si sono trovati più volte dalla stessa parte, generalmente in contrasto più o meno aperto con la posizione statunitense. In ciò, la Russia ha sfruttato con efficacia l’ostilità che da quasi quarant’anni divide Washington e la Repubblica Islamica e la diffidenza che questa ha generato. Da questo punto di vista, la decisione di associare in un unico provvedimento le misure contro i due Paesi rischia, quindi, di favorire un loro ulteriore avvicinamento, mettendo in discussione una delle grandi ambizioni del ‘nuclear deal’ del 2015, ovvero rilanciare la funzione dell’Iran come attore sistemico e gettare le basi di una distensione stabile dei suoi rapporti con il ‘Grande Satana’. Nonostante le posizioni contraddittorie assunte in più occasioni, questi obiettivi non paiono essere stati abbandonati nemmeno dall’Amministrazione Trump, che, anzi, sembra intenzionata a onorare il ‘deal’ seppure tenendo un profilo più basso di quella che l’ha preceduta.
La mossa del Congresso rappresenta l’ennesimo intoppo di questi processo, anche se è presto per dire quali saranno i suoi effetti concreti. La situazione di Mosca e di Teheran, se da una parte presenta una serie di affinità, dall’altra presenta anche molte differenze.
A differenza di Vladimir Putin, Hassan Rouhani ha più che altro da perdere nell’andare a uno scontro frontale con Washington, sia perché questo rafforzerebbe la posizione dei falchi, ancora forti ai vertici politici iraniani, sia perché chiudendo la finestra di dialogo aperta dal ‘nucelar deal’ questo precluderebbe la possibilità di mantenere la sua grande promessa: il rilancio dell’economia nazionale e  -con questa- del tenore di vita di una popolazione che almeno nelle città ha abbondantemente dimostrato di non accettare più i sacrifici imposti dal ‘rigore rivoluzionario’. In questo senso, è il ‘bisogno d’Occidente’ di Teheran l’elemento che -al di là delle convergenze nei singoli teatri- condiziona di più il suo rapporto con la Russia; ciò soprattutto in un momento delicato come l’attuale. La via a disposizione di Rouhani per cercare di salvare capra e cavoli sarebbe il rilancio della politica trumpiana della détente con Mosca. Una via che, alla luce dello scontro in atto a Washington appare oggi, nella migliore delle ipotesi, improbabile.