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Africa subsahariana: la ‘sindrome’ dei mandati di lunga durata

4 Agosto 2017

L’impatto, le cause e le misure di contrasto del fenomeno dei lunghi mandati dei leader africani

Lì dove i capi di Stato sono di lunga, anzi, lunghissima, durata: l’Africa subsahariana è anche questo. Nelle intenzioni di alcuni leader saliti al potere negli anni ’60 e ’70, una presidenza più lunga possibile e lo sforzo di rimanere al potere per più di tre mandati. All’alba del ventunesimo secolo, la tendenza è addirittura aumentata su tutto il continente, insieme al dilagare della corruzione, dell’instabilità politica e sociale e della crisi economica. Un argine al fenomeno potrebbe provenire dall’azione di contrasto interna o dalla pressione esercitata da attori più esterni.

Molte Nazioni africane, nella prima metà del secolo, hanno visto vari trasferimenti di potere e coloro che hanno ottenuto riconoscimenti durante le agitazioni nazionali per l’indipendenza, hanno consolidato e mantenuto a lungo le loro posizioni. Analizzando la situazione africana dall’inizio dell’anno, Il Council on Foreign Relations, ha sottolineato che 5 capi di Stato africani sono stati al potere per più di tre decadi: Teodoro Obiang Nguema Mbasogo nella Guinea Equatoriale, Jose Eduardo dos Santos in Angola, Robert Mugabe in Zimbabwe, Paul Biya in Camerun e Yoweri Museveni in Uganda. Inoltre, altri dieci sono stati al potere per più di un decennio. Tutto questo è accaduto anche attraverso colpi di Stato, nonostante un dimezzamento negli ultimi 40 o 50 anni; così è stato per Mbasogo e Museveni.

Ma qual è l’impatto che questo ha sulla crescita e sulla stabilità economico–sociale del continente africano?

Il Council on Foreign Relations ha evidenziato che esistono delle strette correlazioni tra la consolidata leadership nell’Africa subsahariana e i problemi in materia di sicurezza e sviluppo. Conflitti di vario genere, instabilità, economie cristallizzate o in declino e democrazie in pericolo. Il collegamento si nota in parecchi Paesi.

Vediamo ad esempio lo Zimbabwe, prima uno degli Stati più ricchi e promettenti, poi scivolato con Mugabe in un’era di sottosviluppo cronico e in un’economia ormai da diverso tempo in difficoltà. Presunti usi impropri di fondi pubblici ed una diffusa disorganizzazione. Mugabe, da parte sua, si è assicurato benefici ed un ampio potere. Di conseguenza, le potenzialità del Paese sono sprofondate. Le elezioni presidenziali e parlamentari sono in programma per il prossimo anno ma ci sono problemi anche riguardo i fondi: pare che lo Zimbabwe avrà bisogno di 274 milioni di dollari, secondo il capo della commissione elettorale locale, Rita Makarau. Nonostante sia stata prevista una crescita economica del 2.8 per cento, il debito pubblico contratto non è affatto di poco conto. Carenza di liquidità e costi eccessivi della pubblica amministrazione renderanno difficile una ripresa effettiva.

Il Congo è un altro Paese ad avere problemi legati ad una leadership, a dir poco, duratura con la dittatura di ben tre decadi di Mobutu Sese Seko. Vari scandali, corruzione, appropriazioni indebite e forti problemi legati alle infrastrutture pubbliche. L’estrazione di minerali è stata il fulcro dell’economia della Repubblica Democratica del Congo, economia anche qui caduta in picchiata dopo che il dittatore ha costretto le compagnie straniere ad andarsene e si è appropriato dei fondi governativi. Dopo Mobutu, Laurent Kabila, assassinato dopo quattro anni dalla salita al potere e poi suo figlio Joseph. Quest’ultimo ha continuato, però, sulla via della negligenza, disinteressandosi completamente dei servizi da garantire ai cittadini, appropriandosi anch’egli dei fondi statali e rimanendo spettatore del terribile conflitto nella parte est del Paese. Ne sono seguite proteste di massa e scontri con le forze di sicurezza con un bilancio di più di 180 morti soltanto tra i civili. Ad oggi anche il Governo del partito di Kabila, il Parti du Peuple pour la Reconstruction et la Democratie (PPRD), continua a complottare per evitare le elezioni e prolungare il mandato in una ‘presidenza a vita’ senza preoccuparsi di un’elezione democratica che dia il consenso. Dopo l’accordo di Dicembre tra maggioranza e opposizione ottenuto grazie alla mediazione della Conferenza Episcopale che ha prolungato il mandato di Kabila, il Presidente dovrebbe restare al potere per il tempo necessario affinché sia formato un Governo unitario che indica le elezioni entro la fine dell’anno. Kabila, però, non ha mai firmato nulla e le elezioni non sono state affatto programmate. Contrasti nell’opposizione e rischi di scontri tra le diverse fazioni rendono probabile una guerra regionale. Il clima si fa sempre più teso e la marcia pacifica organizzata domenica scorsa in alcune città per chiedere nuove elezioni, è terminata con l’arresto di centinaia di manifestanti. Contrasti nell’opposizione e rischi di scontri tra le diverse fazioni rendono probabile una guerra regionale.

In Sudan, invece, è al potere Omar al–Bashir dal 1989, il quale depose il primo ministro allora in carica dopo un colpo di Stato. Bashir è rimasto lì nonostante siano emerse irregolarità elettorali e frodi di vario genere, presiedendo la lunghissima guerra civile che ha portato al distaccamento del Sud Sudan. E non solo. E’ stato finanche condannato dalla Corte Penale Internazionale nel 2009 per essersi macchiato di crimini contro l’umanità durante gli episodi tristemente noti in Darfur.

Il fatto che i capi di Stato rimangano così tanto al potere ha contribuito a frenare i processi di democratizzazione che stavano facendo il loro ingresso negli anni ’90 e 2000. L’’Economist’, nel suo indice di classificazione sulla democrazia del 2015, ha evidenziato che ben 21 Nazioni dell’Africa subsahariana hanno regimi autoritari. Abusi sui diritti umani, arresti arbitrari, privazioni della libertà, politiche brutali si contano in cinque Stati, non a caso quelli in cui i capi di Stato sono i più duraturi: Angola, Camerun, Guinea Equatoriale, Uganda e Zimbabwe.

Anche lo Human Rights Watch ha riportato che, anche in Burundi, il clima si è fatto molto più teso da quando nel 2015 sono iniziate le proteste contro il Presidente Pierre Nkurunziza e la sua decisione di candidarsi per la terza volta alle elezioni e la conseguente repressione del dissenso. Si rischia anche qui la guerra regionale. «Nkurunziza si è lanciato in una campagna violenta contro tutti i presunti oppositori del suo regime, mobilitando i servizi di sicurezza a lui fedeli. In due anni almeno 1.200 persone sarebbero state uccise, altre 400-900 sarebbero state vittime di sparizioni forzate, qualche centinaia, se non migliaia sarebbero state torturate, più di 10.000 detenute in modo arbitrario. Nella speranza di fuggire dalle violenze politiche, circa 400.000 burundesi si sono rifugiati nei Paesi vicini. La maggior parte delle violazioni dei diritti umani sono state perpetrate dai servizi di sicurezza burundesi e dalle milizie che agiscono sotto il loro controllo, colpendo in primo luogo la popolazione civile» questa la denuncia del rapporto della Federazione internazionale per i diritti umani (FIDH) e di sei organizzazioni non governative burundesi.

Ma cosa permette a questi leader di rimanere al potere?

Sicuramente il ‘trucchetto’ dei colpi di Stato mascherati come ‘costituzionali’, ovvero attraverso l’escamotage degli emendamenti o referendum nazionali che permettono termini addizionali alle loro cariche. I leader postcoloniali hanno iniziato a farlo dal 2000 in prossimità della scadenza dei loro mandati. Da allora, circa 17 capi di Stato hanno tentato di rimanere al potere oltre il ‘limite massimo’, aggirando le loro stesse costituzioni.

Il Presidente della Namibia, Sam Nujoma, lo fece nel 1998; dopo di lui, il Presidente del Togo, Eyadema Gnassingbe nel 2002 e, un anno dopo, il parlamento gabonese votò addirittura per rimuovere i termini di mandato dal suo testo costituzionale, permettendo al Presidente Omar Bongo di candidarsi per la sesta volta. Dopo questi primi tentativi, la prassi è diventata costante: Angola, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Ciad, Djibouti, Guinea Equatoriale, Guinea, Niger, Nigeria, Congo, Rwanda, Senegal e Uganda. Modifiche legislative studiate appositamente, escamotage che hanno consentito ai leader già in carica di estendere i loro mandati.

In Rwanda, oggi le elezioni per eleggere il ‘nuovo’ Presidente. Secondo i sondaggi e gran parte degli analisti, una ‘formalità’ poiché, si è certi che Paul Kagame, per la terza volta, verrà eletto alla guida del Paese, dopo già tanti anni. Kagame, al potere dal 2000, ma ufficialmente dalla fine della guerra civile del ’94, è il candidato del Fronte Patriottico Rwandese (RPF) ed è visto come il salvatore di un Paese dilaniato dal genocidio. Anche per questo si parla con sicurezza della sua terza ri-elezione, dopo una carriera per ora, in netta salita. Si parla di trasparenza nelle elezioni ma ciò non toglie che una terza elezione non sarebbe stata possibile se lo stesso non avesse proposto uno di quei famosi emendamenti che gli consente di rimanere al potere fino al 2034.

Nello studio, si evidenzia che i Paesi più vulnerabili ai colpi di Stato o ai trucchi di questo genere sono quelli in cui manca del tutto una vera ed efficace opposizione politica. Infatti, molti dei Paesi subsahariani, come Camerun e Rwanda, hanno di fatto un solo forte partito politico.

Rimanere al potere, in questi Stati, inoltre, significa garantire prosperità e ricchezza alle loro stesse famiglie; Kabila in Congo, ha accumulato centinaia di milioni di dollari e Dos Santos in Angola è stato per tanto tempo accusato di aver rubato fondi governativi e sua figlia è nota per essere la donna più benestante del continente, a capo della compagnia petrolifera statale nel 2016.

Proprio l’Angola eleggerà il suo nuovo Presidente il prossimo 23 Agosto. Venerdì scorso il Parlamento ha approvato una legge che limiterà drasticamente i poteri dei futuri leader in materia di sicurezza e difesa. Il Governo ha anche autorizzato l’invio nel Paese di quattro esperti dell’Unione Europea per monitorare il corretto svolgimento delle elezioni.

E’ anche vero, però, che a volte i leader non sono riusciti ad estendere il loro mandato. Ad esempio, il Presidente dello Zambia, Frederick Chiluba e quello del Malawi, Bakili Muluzi, hanno fallito nel cercare di far approvare tali emendamenti.

Come mai? Proprio a causa di quelle opposizioni inesistenti negli altri Paesi citati. In Nigeria, per fare un esempio, il senato ha rigettato la proposta che avrebbe consentito al Presidente Olusegun Obasanjo di rimanere in carica per il terzo mandato. Anche i cittadini hanno avuto il loro ruolo, protestando e facendo sentire ampiamente il loro dissenso. In Senegal, nel 2012, le agitazioni popolari hanno portato alla sconfitta di Wade che stava correndo per la terza volta alle elezioni.

Come rispondono a questo gli attori esterni? L’African Union (AU) ha prevenuto alcuni di questi colpi di Stato con la minaccia di sospendere a questi Stati l’affiliazione all’Unione e imporre sanzioni ed interventi militari. Nel 2012 ha anche approvato un documento specifico, l’‘African Charter on Democracy, Elections, and Governance’ che richiama la responsabilità degli Stati africani nello stabilire i termini legali per l’accesso al potere e per la durata del mandato, nonché la garanzia di elezioni trasparenti e regolari e l’assenza di emendamenti che infrangano i principi democratici.

Anche l’ECOWAS ha avuto il suo ruolo in diverse occasioni. Un intervento militare ha costretto il gambiano Jammeh a lasciare la sua comoda posizione e la sua Nazione. L’ECOWAS, inoltre, si è posto come osservatore e garante delle elezioni in Nigeria nel 2015, Togo, Guinea, Costa d’Avorio e Burkina Faso. Anche le Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno agito imponendo sanzioni a diverse Nazioni africane per aver frenato cambi legittimi di potere o truccato le elezioni. Tra queste Burundi, Congo e Zimbabwe.

Anche gli Stati Uniti, come evidenzia lo studio, credono che la democrazia sia una priorità da garantire a questi Paesi, ma Donald Trump non ha ancora messo a punto dei programmi precisi in questa direzione. Le sanzioni economiche sono uno dei mezzi attraverso cui gli USA provano ad evitare che vi sia uno slittamento all’indietro dei processi di democratizzazione; ma le sanzioni da sole non bastano.

Occorrerebbe, come sempre, una coordinazione con il sistema locale e, soprattutto, un dialogo con delle forze politiche di opposizione ben precise ed organizzate che crei una forza di reazione efficace contro un sistema così duraturo e negativo che faccia ricordare all’Africa subsahariana che questa non è la ‘normalità’ ma un meccanismo da cui occorre sfuggire.