Nostalgia sovietica: il ricordo dell’Urss e la fine del comunismo
8 Gennaio 2017
L’Unione cessò di esistere nel dicembre del 1991. Dopo 25 anni, il 56% dei russi la rimpiange. Per un senso etico perduto. Da Putin a Gorbaciov, viaggio a ritroso di L43 attraverso il dissolvimento dell’impero.
Irina, 62 anni, funzionaria di una banca moscovita, alla domanda sui ricordi degli ultimi anni del comunismo risponde così: «La prima cosa che mi viene in mente sono i libri. Con Gorbaciov erano arrivati i libri: non più fogli di ciclostile scambiati sottobanco, libri veri». Irina parla con Lettera43.it durante una passeggiata nel cimitero degli elefanti dell’Urss: le grandi statue di bronzo dei leader sovietici spodestate 25 anni fa dalle piazze di Mosca sono state riunite in questo parco, battezzato Muzeon.
IN CODA PER SCARPE E SALSICCE. Libri? Ma non si ricorda piuttosto gli scaffali vuoti nei negozi? «Oh certo, far la spesa diventava sempre di più un problema. Arrivava una cosa alla volta. Ci si passava la voce quando in un certo negozio c’erano le scarpe. E via, tutti lì in coda finché le scarpe non finivano. Lo stesso se si trattava di salsicce: in coda fino all’ultima. Magari poi non ne rivedevi per sei mesi».
«CI SI ARRANGIAVA COMUNQUE». Due cani si azzuffano tra i busti di marmo di Stalin e del suo ministro degli Esteri Molotov. Ragazzini con in mano pattini da ghiaccio con salvalame colorati corrono verso il sottopasso che porta a Park Kulturi, il Gorky Park del thriller di Martin Cruz Smith. «Se avvistavi una coda», continua Irina, «ti ci infilavi subito, anche senza sapere cosa vendevano: era senz’altro qualcosa che ti serviva. Ti mettevi in coda e poi semmai chiedevi qual era la merce. Ma ci si arrangiava, eravamo abituati». Gli occhi di bronzo di Felix Dzerzhinsky, inventore della Ceka (il servizio di spionaggio sovietico che poi si chiamò Kgb), osservano dall’alto l’unica coda oggi visibile nei dintorni: quella per la mostra di uno scultore minimalista tedesco alla galleria Tretyakov d’arte contemporanea.
Oltre la metà dei russi (il 56%) rimpiange l’Urss, secondo un sondaggio fatto a fine novembre 2016 dal centro indipendente di statistica Levada. Non che si senta la mancanza delle code per le salsicce, o degli ospedali sovietici senza docce. Né si vorrebbe tornare a vivere in una bella kommunalka, dove a ogni famiglia veniva assegnata una stanza mentre corridoio, bagno e cucina erano in comune (chi vi ha abitato «non potrà mai più stupirsi di niente», scrisse Mikhail Bulgakov). Neppure pesa più molto la perdita del «senso di appartenenza a una grande potenza», nota l’istituto di sondaggi: la politica internazionale aggressiva di Vladimir Putin negli ultimi anni è riuscita a colmare quel vuoto. È invece sul piano etico che molti oggi in Russia rimangono fortemente critici nei confronti del dopo-Urss, era Putin compresa.
SENSIBILITÀ PER LA DIMENSIONE MORALE. È difficile sopravvalutare la tensione verso la supremazia morale che agisce nella memoria storica dei russi: il messianismo internazionale del comunismo fu certo cosa diversa dalla millenaria missione salvifica della “vera fede” ortodossa sottomessa al potere zarista, ma toccò le stesse corde. Come le tocca la propaganda putinista nella Russia di oggi. Negli ultimi sei anni dell’Unione sovietica, la sensibilità dei russi per la dimensione morale divenne il carburante di un’emozionante rinascita della cultura, e di un sincero tentativo di miglioramento economico, politico e sociale.
CON GORBACIOV SLANCI ETICI FINITI. Quando, nel 1985, Mikhail Gorbaciov fu nominato “gensek”, ovvero Segretario generale del Partito comunista dell’Unione sovietica (Pcus), lo slancio etico della Rivoluzione d’ottobre del 1917 e quello della vittoria nella “Grande guerra patriottica” contro il nazismo erano da tempo esauriti: «Lo stato morale della società era piombato nelle condizioni più terrificanti», per dirla col primo ministro di Gorbaciov Nikolai Rizhkov: «Abbiamo rubato a noi stessi, dato e ricevuto mazzette, mentito nelle relazioni, nei giornali e nei discorsi. Siamo affogati nelle nostre menzogne, e ci siamo appuntati medaglie a vicenda. Dal vertice alla base, e viceversa», era il suo desolante quadro di cosa era diventata l’Urss.
Il processo che Gorbaciov mise in moto era volto a correggere i difetti morali del sistema, prima di quelli economici. Con le sue riforme, il nuovo capo voleva costruire una Unione sovietica moralmente migliore. «Non possiamo continuare a vivere in questo modo», è la sua frase passata alla storia. Gorbaciov avrebbe potuto rimanere al vertice dell’impero per tutta la vita, come Stalin e gli altri. Invece iniziò a scrollare l’albero di cui aveva appena raggiunto la cima, e le oscillazioni diventarono così violente da far rovinare a terra lui e l’albero.
ARRIVARONO LIBRI E GIORNALI. Il “gensek” avviò la perestroika (ristrutturazione) e la glasnost (pubblico dominio, trasparenza) che invitava al dibattito aperto e a una più ampia e libera informazione. Così arrivarono i libri, anche quelli degli scrittori dissidenti e degli stranieri fino ad allora proibiti. E giunsero i giornali, tanti nuovi giornali. La gente faceva la fila al mattino davanti alle edicole perché andavano tutti esauriti in un paio d’ore.
IL MODELLO FU SCONFITTO. Gorbaciov diceva che «la democratizzazione non è uno slogan, ma è l’essenza stessa della perestroika». Aggiungendo, anni dopo, che «il modello sovietico fu sconfitto non solo a livello economico e sociale, ma anche a livello culturale». Dal 1989 iniziarono a essere fatti sondaggi di opinione: la grande maggioranza della popolazione risultò a favore di vere elezioni con più partiti. Nel 1990, oltre il 60% dei russi era per una transizione all’economia di mercato.
La statua di Dzerzhinsky, che oggi si trova nel parco del Muzeon, fino alla notte del 22 agosto 1991 svettava di fronte al quartier generale del Fsb, il servizio di sicurezza interno erede della Ceka e del Kgb, e della loro sede. Venne abbattuta a furor di popolo in quella notte d’estate dopo il fallito golpe ispirato e diretto dal Kgb per spodestare il presidente che stava regalando la libertà ai russi e aprendo l’Unione Sovietica al mondo.
ELTSIN FIGURA EMBLEMATICA. L’Urss formalmente cessò di esistere il 26 dicembre di quell’anno, ma in realtà finì durante il “Putsch d’agosto”. Il tentativo dei dinosauri del sistema fu fermato dalla resistenza dei moscoviti, dai soldati della divisione Tamanskaya, che disobbedendo agli ordini dei golpisti voltarono le torrette dei loro carri armati schierandosi a difesa del parlamento di Mosca, e dalle parole pronunciate dal leader democratico emergente Boris Eltsin, in piedi su un tank col suo megafono: una delle immagini più emblematiche del coraggio e delle speranze che in quegli anni agivano per cambiare in meglio il mondo.
INESORABILE FINE DI UN IMPERO. Ci furono tre morti, le uniche vittime degli avvenimenti che produssero il dissolvimento dell’impero sovietico. Li ricorda solo un modesto cippo affogato tra i palazzi della Novy Arbat a Mosca e di cui nessuno si occupa più. Ciò che successe dopo quei giorni d’agosto non ne fu che la conseguenza: gli accordi di Belavezha tra Russia, Ucraina e Bielorussia l’8 dicembre, e poi dal protocollo di Alma-Ata a cui aderirono tutte le altre repubbliche dell’Unione fuorché la Georgia, decretarono la fine dell’Unione.
UN CROLLO NON PREVISTO. Gorbaciov aveva una profonda e personale avversione alla violenza. Non cercò di fermare il processo, che non desiderava ma considerava ormai inarrestabile. La sera del 25 dicembre annunciò in diretta televisiva le sue dimissioni. Sul Cremlino fu ammainata la bandiera rossa dell’Urss e issato il tricolore russo. Così in pochi mesi di quel 1991 crollò l’Unione sovietica, e con essa la dittatura del partito unico, l’economia di Stato e il controllo del Cremlino sul suo impero. Nessuno lo aveva previsto.
Il ‘maestro di Russia’ della diplomazia americana George Kennan scrisse: «Difficile pensare a un evento più strano e sorprendente dell’improvvisa e totale disintegrazione e sparizione della grande potenza nota prima come Impero russo e poi come Unione sovietica». Scarsità di generi alimentari e povertà erano diventati endemici, ma l’Urss aveva superato calamità ben maggiori senza che il sistema fosse nemmeno lontanamente messo in discussione.
L’OCCIDENTE NON CONCESSE FIDUCIA. Le risorse naturali e umane erano le stesse degli Anni 60 e 70. L’economia, seppur rallentata dalle inefficienze produttive e distributive, dal 1980 al 1985 era cresciuta a un ritmo annuale medio dell’1,9%, andamento rimasto simile fino al 1989. Il rapporto tra deficit statale e prodotto interno lordo aumentò dal 2% del 1985 fino al 9% del 1989: una dimensione ancora gestibile. I numeri non indicavano una situazione poi così drammatica. Le riforme di Gorbaciov avrebbero potuto riuscire a correggerla, se l’Occidente avesse fornito gli aiuti finanziari e tecnologici che il “gensek” chiese e non ottenne. L’Occidente non volle dar fiducia a Mosca né mettersi in gioco. E così fu persa l’occasione di reimmaginare il mondo.
Subito dopo il collasso dell’Urss, in un sostanziale vuoto di leggi e istituzioni, una trentina di “oligarchi” si spartì rapidamente circa il 40% della ricchezza nazionale, mentre la maggior parte della popolazione cadeva nell’indigenza. La vita media degli uomini diminuì da 65 a 57 anni. Infarti, suicidi, incidenti d’auto e avvelenamento da alcol divennero le prime cause di decesso. Il primo presidente post-sovietico Boris Eltsin credette che privatizzazioni selvagge e totale deregolamentazione garantissero la creazione di un capitalismo moderno. Fu un tragico errore.
TESSUTO SOCIALE LACERATO. La gente dovette reinventarsi la vita. Ingegneri e professori divennero tassisti abusivi, infermiere e maestre di scuola si avvicinarono alla prostituzione. Il tessuto sociale del Paese si lacerò. Le banche e le agenzie immobiliari occidentali riciclavano i miliardi degli oligarchi e dei gangster loro sodali. Si creò risentimento verso l’Occidente. L’allargamento della Nato ai confini della Russia lo rafforzò. In pochi anni fu pronto il terreno per un governo che riportasse ordine e facesse della contrapposizione con gli Usa una bandiera.
PER PUTIN FU «TRAGEDIA GEOPOLITCA». Fu quasi per caso, racconta Masha Gessen nella sua biografia di Vladimir Putin, che l’entourage di uno Eltsin gravemente malato scelse come suo successore l’allora oscuro ex colonnello del Kgb che ormai da 16 anni regna sulla Russia, e che non perde mai l’occasione di dire che la fine dell’Unione sovietica è stata «una tragedia geopolitica».
La Russia di Vladimir Putin è di nuovo una potenza globale. Si è annessa la Crimea. Dice la sua sulle crisi mediorientali, e con argomenti da prendere sul serio, come si è visto in Siria. Ha attuato un programma di riarmo di dimensioni sovietiche. Il Cremlino, come ai tempi dell’Urss, ha messo in piedi un apparato propagandistico capillare e controlla la maggior parte dei media. E come ai tempi dell’Urss ha la sua quinta colonna oltrecortina: non più i partiti comunisti nazionali, ma i movimenti populisti e dell’estrema destra europei e americani – tutti in piena crescita.
GLI EX KGB AL POTERE. Quindi cos’è cambiato – a parte il quadro ideologico, oggi inesistente – dai tempi dell’Urss? Il politologo moscovita Andrei Kolesnikov spiega che «l’attuale élite politica è conservatrice e imperialista quanto lo erano i golpisti dell’agosto 1991». D’altra parte il Kgb fu il motore del Putsch d’agosto, e oggi al potere c’è un ex funzionario del Kgb. Il leader del Cremlino ha messo suoi ex colleghi dell’intelligence alla testa dei maggiori gruppi industriali e nei posti chiave dell’amministrazione statale.
UN REALISMO SENZA IDEALI. Nessun rimpianto per il comunismo da parte del presidente. Piuttosto, la volontà di resuscitare l’organizzazione per il controllo interno e il ruolo di super potenza che l’Unione sovietica aveva, e di utilizzare cinicamente ogni opportunità per farlo. Il direttore di Russia in Global Affairs Fyodor Lukyanov dice: «Prevale un cupo realismo senza ideali». La situazione attuale gli ricorda il grigiore soffocante dell’era Breznev.
SI LIBERÒ TANTA ENERGIA. Rimpiange la Russia che un quarto di secolo fa sperava, rischiava e cambiava: «Sì, certo, è stato un periodo di luce e di speranze», ricorda l’intellettuale moscovita. «Specialmente tra il 1987 e il 1990: era il tempo dell’ottimismo e delle grandi aspettative, la stagione dei grandi ideali. Non c’era ancora l’esperienza del fallimento. Si era improvvisamente liberata così tanta energia. E non era iniziata la dittatura del denaro». Venticinque anni «perduti», secondo Lukyanov.
Tra i russi oggi prevale l’apatia. A San Pietroburgo l’affluenza al voto per le elezioni parlamentari del settembre 2016 è stata solo del 25%. Il Paese sa che nella cosiddetta “democrazia controllata” di Putin le elezioni non servono a niente, se non altro perché l’opposizione se la sceglie il governo. Il giudizio sulla classe politica e sugli slivokì, gli ex ufficiali dell’intelligence a cui Putin ha regalato l’economia, è pessimo.
PUTIN NON È PER SEMPRE. Resta rispetto per il presidente. Ma i sondaggi che gli danno un tasso di approvazione addirittura superiore all’80% non sono attendibili, anche se svolti da istituti indipendenti. «Cosa vuoi che risponda il cittadino di un Paese che ha avuto 70 anni di dittatura fondata sullo spionaggio a uno sondaggista che gli chiede al telefono se il capo è bravo?», notava qualche tempo fa la giornalista Evgenya Albats nella redazione del settimanale che dirige, The New Times.
LA RECESSIONE MORDE. Intanto due anni di recessione stanno facendo scendere i salari a un tasso tendenziale di circa l’8%. L’economia resta quasi interamente fondata su un’industria petrolifera che necessita di forti investimenti in infrastrutture. Le sanzioni per l’annessione della Crimea di fatto tagliano fuori la Russia dai mercati dei capitali. I conti pubblici sono diventati asfittici.
ELEZIONI PIÙ DEMOCRATICHE? Alcuni analisti politici, come Valery Solovei del Mgimo, l’università dei diplomatici russi, considerano probabile che un’insoddisfazione morale e materiale diffusa possa portare presto a proteste politiche. Per prevenirle, il governo sta considerando di rendere le elezioni presidenziali del 2018 più democratiche del solito, almeno formalmente. L’unico leader d’opposizione carismatico, l’avvocato anti-corruzione Alexey Navalny, ha detto che vorrebbe presentarsi. Gli daranno il permesso?