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Tunisia: viaggio a Ben Guerdane, la “porta dell’Isis”

11 Dicembre 2016

Si trova a 20 km dal confine libico. E da qui passa gran parte dei foreign fighter che si uniscono al Califfato. Adesso, con Berlino, il governo vuole costruire un muro. Ma può essere un boomerang. Il reportage di L43.

Ben Guerdane, Tunisia meridionale. Venti chilometri separano questa terra dal confine con la Libia. Qui a fine novembre, per tre volte nel giro di 15 giorni, guardia nazionale ed esercito hanno ritrovato armi e munizioni. Arsenali che appartenevano ai terroristi, pronti per essere utilizzati di nuovo. La città a marzo del 2016 era stata assalita da un gruppo di terroristi dell’Isis, intenzionati a trasformarla in una Raqqa-bis. L’incursione è stata immediatamente fermata dall’esercito tunisino, con un bilancio di 55 terroristi uccisi e 52 arrestati. Ma a Ben Guerdane tutto lascia intendere che esistano ancora cellule dormienti.

IMMERSA IN UN MARE DI SABBIA. Tutt’intorno alla città c’è un mare di sabbia, un paesaggio lunare che si ripete sempre identico. Basta attraversare Ben Guerdane per rendersi conto che le attività produttive sono poche. Il paese si sviluppa intorno alla piazza con il mercato, colorata e caotica, come sempre a queste latitudini. Non c’è un singolo edificio che spunti, nel centro di Ben Guerdane. Sono tutti bassi, schiacciati. L’unica costruzione che si ricorda è la caserma, coperta da uno spesso muro di cemento, come se fosse un drappo per nasconderla. L’assalto dei terroristi è ancora visibile sui muri scheggiati dai proiettili.


La via che porta fuori da Ben Guerdane è puntellata di minuscoli chioschi dove, all’esterno, sono ammassate taniche di benzina, alle 16 ormai tutte vuote. Mohammed, uno dei tanti ragazzi che gestisce questi piccoli chioschi, avrà circa 25 anni. Ogni mattina attraversa il confine con la Libia, con un carretto e le sue taniche. Le riempie, poi torna indietro e smercia la benzina a un prezzo un po’ più alto, ma minore rispetto a quello che dovrebbero pagare in Tunisia.

UN MURO AL CONFINE LIBICO. Per rendere proprio questo confine meno poroso e più sicuro, a metà 2017 dovrebbe entrare in funzione una barriera elettronica, messa in piedi anche con l’aiuto economico della Germania. «Ma se chiuderanno il confine», dice Mohammed a Lettera43.it, «non ci sarà più lavoro per noi. Tutte le nostre attività sono legate al confine». E non tutti sono disposti ad accettare le condizioni imposte dall’alto. Dalla Tunisia sono partiti oltre 8 mila foreign fighter, secondo le stime dell’esecutivo. Anche donne, a volte con una famiglia al seguito: partono per diventare le mogli dei soldati, dare loro “conforto” dopo la battaglia. Tra 600 e 800 combattenti sono rientrati in Tunisia, la maggior parte dalla Siria.

«I foreign fighter provengono soprattutto dal Sud della Tunisia, che è la zona più povera», spiega Habib Sayed, 28 anni, consulente del gruppo interministeriale del governo che combatte contro il radicamento del terrorismo in Tunisia. «Si sta cercando di lavorare su programmi di reintegro e di monitoraggio di chi è rientrato, ma per ora non hanno prodotto nulla. Finiscono sotto sorveglianza e a volte vengono arrestati, anche senza prove». Non è un capo d’imputazione essere rientrati da Paesi dove c’è lo Stato Islamico. Soprattutto per chi fa rientro dalla Libia. I familiari delle persone sotto controllo, però, vengono spesso isolati, perdono il lavoro se ce l’hanno e ci sono pochi fondi per reintegrarle nella società. Un circolo vizioso che rischia di avvicinarli paradossalmente al terrorismo.

ASCESA E CADUTA DI MOEZ FEZZANI. Cellule dormienti ne esistono e ben prima della nascita dello Stato Islamico. «Le prime si sono sviluppate con Ansar al Sharia a Milano», spiega Sayed. Il gruppo ha fatto la storia del jihadismo tunisino, secondo il ricercatore. Uno dei suoi esponenti principali, tra il 1997 e il 2001, è stato Moez Fezzani, conosciuto come Abu Nassim, arrestato in Sudan dopo una condanna del 2014 a cinque anni e otto mesi per associazione a delinquere con finalità terroristiche. Sarebbe tra gli organizzatori degli attentati in Tunisia al Museo del Bardo e alla città di Sousse. «In fondo», conclude Sayed, «prima della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, il terrorismo in Tunisia era sempre un fenomeno legato ai foreign fighter».


Mustapha Abdelkabir ha circa 50 anni. Il suo ufficio è a Medenina, sulla strada che dal porto di Zarzis si spinge fino a Ben Guerdane. È un grande conoscitore della regione e dei problemi che si porta appresso, storicamente. Abdelkabir è stato tra i responsabili del campo profughi di Choucha, chiuso ufficialmente nel giugno 2013 e a oggi abitato ancora da circa 50 migranti (subsahariani per lo più) arrivati dalla Libia. Collabora come consulente del governo per le vicende che riguardano i gruppi estremisti al confine Tunisia-Libia.

«I PROBLEMI VANNO RISOLTI IN LIBIA». «Gli europei dovrebbero andare in Libia e risolvere i problemi da lì», afferma. Non è dalla Tunisia che possono controllare la minaccia terroristica. Semmai, dice, dovrebbero attrezzare la Tunisia ad accogliere persone nel caso di una nuova crisi. Città costiere vicino al confine, come Sabrata e Zawiya, sono tra i punti più caldi del conflitto. «Invece in Tunisia non ci sono strutture. Se domani scoppiasse una crisi, non saremmo preparati ad accogliere nessuno», spiega. Eppure, la cancelliera tedesca Angela Merkel a settembre diceva che l’accordo sui migranti Europa-Turchia «andrebbe allargato anche a Paesi come Egitto e Tunisia».