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L’arte che finanzia il radicalismo islamico: Isis e non solo

23 Novembre 2016

Luca Nannipieri preme per un intervento: ‘Occorre dare una normativa stringente e molto più severa’

Il traffico dei beni culturali dall’Iraq e dalla Siria è risaputo da tempo è una delle fonti di finanziamento del terrorismo jihadista. Secondo ‘Gnosis’, la ‘rivista italiana di Intelligence’, il giro d’affari è in costante crescita: dal 2012 a oggi il contrabbando di opere d’arte provenienti dal Medio Oriente ha avuto un’impennata dell’86%, da 51 a 95 milioni di dollari. Beni che finiscono in «in aste, gallerie, musei e abitazioni private di tutta Europa, ma anche nei Paesi del Golfo, dove i ricchi sono disposti a pagare ingenti somme per accaparrarsi un pezzo di storia», secondo l’intelligence italiana.
Un business che a parole tutti dicono di voler bloccare, ma “non è stato fatto sostanzialmente nulla” in questa direzione, secondo Luca Nannipieri, direttore del Centro studi umanistici dell’abbazia di San Savino, saggista e collaboratore di vari quotidiani nazionali. Non solo: quando si parla di questo business riferito al terrorismo jihadista in automatico si pensa all’ISIS, secondo Nannipieri non è così: “Si chiami Isis, si chiami I Fratelli Musulmani per quanto riguarda la Libia, si chiami Salafiti per quanto riguarda l’Egitto, l’integralismo islamico nei Paesi Medio orientali e africani sistematicamente, come i narcotrafficanti per quanto riguarda la droga nei Paesi Sudamericani, mette il contrabbando tra le prime fonti di finanziamento. Sono perciò vari gruppi che utilizzano queste forme di finanziamento”.
Nannipieri, quando si pensa alle modalità di finanziamento del radicalismo islamico, si è portati a focalizzare l’attenzione sulle risorse che sembrano più immediate, come il petrolio e il traffico di droga. Non ci si accorge però, che esistono altre modalità altrettanto significative, e una di queste è sicuramente l’arte.  Ci può spiegare i meccanismi per i quali anche l’arte contribuisce a riempire le casse del Califfato?
Il contrabbando di manufatti antichi dai siti archeologici, dai musei, o dai depositi in Oriente e in Africa è un commercio floridissimo che va spesso sotto traccia e che ovviamente, alimenta quelle fonti che lo originano. In vari Paesi, soprattutto in Iraq, in Siria e devo dire anche nei paesi coinvolti nelle cosiddette primavere arabe come l’Egitto, vi è una pluralità di siti archeologici, monumentali, o persino musei che costantemente sono preda di saccheggi e sciacallaggi. Sono spesso le persone del luogo che, per fame, mettono in atto queste azioni. Lo scopo non è tanto quello di spaccare per spaccare, idea invece passata mesi fa per via dell’Isis, nelle vicende del museo di Mosul. Ritenere che la frantumazione  di quelle statue fosse dovuta solamente al fatto che le ritenessero blasfeme, è soltanto una visione riduttiva del fenomeno. Le antichità e le opere d’arte vengono rubate, saccheggiate e frantumate, anche perché è molto più facile trasportarle, col preciso scopo di farne motivo di compravendita, di contrattazione nei mercati e Paesi occidentali.
Qual è il processo che sta dietro al giro di affari di questo traffico di beni culturali? In quali paesi finiscono le opere d’arte e chi sono i compratori?
Alla base vi è un tragitto tremendo, che per la maggior parte fa sede a Beirut, nel Libano. Perché Beirut, ci si potrebbe chiedere? Perché è un porto che dispone sia di una finestra sul Mediterraneo, che una sull’Atlantico. È inoltre una rotta aerea molto ambita. Nel porto di Beirut arrivano quasi un milione di container l’anno come traffico merci. Questo percorso tortuoso ha come destinazione i nostri paesi, soprattutto l’Inghilterra, la Svizzera e gli Stati Uniti. I compratori sono le case d’arte, quelle dei collezionisti, e anche nei musei. Tutti questi hanno come base di appoggio Beirut.
Le merci arrivate a Beirut possono trovare due principali modalità di trasporto: il TIR o le navi. Per quanto riguarda queste ultime, si deve rilevare una mancanza di controlli nei porti atlantici. Mentre nei porti italiani infatti c’è un sistema di sorveglianza che intercetta un container su dieci, in quelli atlantici, come nel caso di Rotterdam e Amburgo, la percentuale dei container controllati crolla vertiginosamente: arriva al 2% o 3%. Questo è dovuto al fatto che di container ne arrivano tantissimi di più. Quindi sono un luogo molto ambito per il passaggio delle opere d’arte, poiché queste possono arrivare senza avere controlli pressanti. Le antichità vengono quindi riposte in questi container dotati di doppi fondi e arrivano pressoché indisturbate sino in Inghilterra.
Per quanto riguarda il percorso tramite TIR, elemento centrale è il Carnet Tir, ossia un documento internazionale che permette ai veicoli di essere controllati solamente nel paese di partenza e in quello di arrivo. Tutti i passaggi di dogana vengono quindi bypassati. Ma lei capisce quanto controllo vi possa essere su un veicolo che parte dalla Siria o dall’Iran…
Possedendo questo documento tutto è però in regola: il TIR possiede il certificato che sta trasportando, per esempio, pellame e così è. Ma nei sottofondi nasconde le antichità. Nel mezzo del tragitto avvengono purtroppo le consegne. Dal Libano all’Europa so passa per i Balcani, che sono ‘un gruviera’. I TIR lasciano quindi questi manufatti antichi ai paesi europei e attuano il passaggio di consegna.
Come rientrano nel mercato legale?
Vi sono dei reati, come quello di ricettazione, in cui si può incorrere nel momento in cui si possiede un manufatto antico senza certificazione. La legge prevede infatti che bisogna comprovare la proprietà dei manufatti. Per evitare tutto questo, le antichità sottratte illegalmente vengono consegnate agli storici dell’arte consenzienti, che stilano una carta di identità che perizia l’opera per farla diventare da illegale a legale. Ovviamente tace la provenienza, che viene messa in modo molto generico. Ad esempio si dichiara: ‘provenienza Medio orientale.’ Ma dov’è il Medio Oriente? Cosa identifica? Oppure: ‘provenienza mesopotamica.’ Cosa vuol dire la Mesopotamia?
È assolutamente una cosa difficilmente circoscrivibile. A conti fatti però, grazie a questa certificazione, i manufatti diventano commerciali e immessi nel mercato.