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Antibiotici negli allevamenti, l’Italia è la regina degli abusi

15 Novembre 2016

In Italia si usa più del doppio di antibiotici della media europea. Un rischio non solo per gli animali ma anche per l’uomo, a causa della resistenza dei batteri sempre maggiore. L’associazione Ciwf lancia un appello alla ministra Lorenzin: “monitoraggio e strategia con obblighi per gli allevatori”

Quanto all’uso di antibiotici negli allevamenti l’Italia sembra appartenere a un’era preistorica. Nonostante gli allarmi, arrivati dall’Agenzia europea per i medicinali (Ema), dall’Organizzazione mondiale della sanità, da ultimo anche da un magazine come l’Economist (che qualche mese fa accese il dibattito a livello internazionale), ben poco si è fatto nel nostro Paese per evitare abusi che portano dritti alla resistenza dei batteri agli antibiotici.

Anzi, le cose nel 2014 sono peggiorate, con un incremento rispetto al 2013 che ha interrotto una discesa (pari al 25%) che era iniziata a partire dal 2010. Non si parla di cifre marginali, perché il 71% degli antibiotici venduti in Italia finisce negli allevamenti. E noi siamo quasi la maglia nera in Europa. Come riporta un documento dell’associazione Ciwf, il nostro Paese resta il terzo più grande utilizzatore nell’Ue (dopo Spagna e Cipro) e il nostro consumo è ben al di sopra della media dei Paesi membri. «Le vendite riportate nel report Ema – spiegano dalla Ciwf – sono calcolate in termini di quantità di principio attivo utilizzato per unità di bestiame (l’unità viene chiamata “Population Correction Unit” o Pcu) e l’uso in Italia nel 2014 è stato di 359,9 mg/Pcu, mentre la media delle 29 nazioni europee (Eu/Eea) è di 152 mg/Pcu». Più del doppio.

Per questo l’associazione animalista, che è attiva in Italia da due anni e mezzo ma a livello internazionale da 50 anni (principalmente nel Regno Unito), ha lanciato una petizione su Change.org alla ministra della Salute Beatrice Lorenzin, perché si adoperi per attuare con urgenza misure efficaci per monitorare e ridurre i consumi di antibiotici negli allevamenti. «Invitiamo i cittadini a unirsi a noi per chiedere al ministro della Salute di agire in fretta e in modo efficace contro un’emergenza che potrebbe provocare fra pochi anni più morti del cancro e che già causa 7000 morti ogni anno nel nostro paese. Il Ministero della Salute deve anteporre la salute dei cittadini agli interessi della zootecnìa intensiva», dichiara Annamaria Pisapia, direttrice di Ciwf Italia Onlus.

Il primo passo sarebbe dunque monitorare quello che succede, andando oltre i dati aggregati e capendo cosa succede a livello di singoli allevamenti. La richiesta dell’associazione è che sia esteso l’uso della ricetta elettronica, attualmente in sperimentazione in Abruzzo e in Lombardia. «Sarebbe importantissimo, perché avremmo finalmente dei dati affidabili su cui basarci nelle analisi, come avviene in Francia», commentano a Linkiesta dall’associazione. In secondo luogo viene chiesta una strategia per la riduzione dell’uso degli antibiotici in zootecnia. Gli esempi più eclatanti sono quelli di Olanda (uno dei maggiori produttori di carne al mondo) e Danimarca. Il governo, spiegano dalla Ciwf, ha promesso azioni su entrambi i fronti, ma l’associazione chiede che le procedure per estendere a tutto il Paese la ricetta elettronica accelerino e che il piano per la riduzione degli antibiotici, annunciato dal sottosegretario alla Salute Vito De Filippo per il 2017 dopo un’inchiesta di Report, non si limiti a generiche linee guida ma preveda indicazioni cogenti. Ossia multe o disincentivi per chi supera certi livelli di somministrazione.

La pressione dell’associazione si sta alzando anche perché nei prossimi mesi l’Italia dovrà dare il suo voto su una proposta di regolamentazione europea più stringente. Uscita dalla commissione Ambiente e già approvata dal Parlamento europeo, nel gennaio 2017 sarà discussa nel dialogo tripartito tra il Parlamento, la Commissione e il Consiglio dell’Unione Europea. La legislazione europea è già stata importante in passato: è grazie alle normative comunitarie che dal 2006 nel Vecchio Continente non si possono più usare gli antibiotici per favorire la crescita, ancora permessi invece negli Stati Uniti.

Quando si parla di abusi, la Ciwf specifica che si riferisce ai trattamenti preventivi e di routine. «I dati dell’Ema mostrano che circa il 94% degli antibiotici utilizzati in Italia servono per i trattamenti di massa somministrati nei mangimi o nell’acqua», si legge in una nota. Tali trattamenti, aggiungono dall’associazione, sono resi necessari da diversi fattori, tra cui le scarse condizioni di benessere con cui vengono allevati gli animali negli allevamenti. «Per usarne meno bisogna allevare gli animali meglio. Le misure variano da specie a specie, ma è necessario in primo luogo agire sulla densità», spiega a Linkiesta Federica di Leonardo, portavoce dell’associazione. Prendiamo i polli, dove la resistenza degli antibiotici è già stata segnalata da un report curato dall’associazione: oggi la legge italiana, in linea con la normativa europea, consente di allevare a una densità massima di 33 chilogrammi di peso vivo a metro quadro (ossia 15/16 polli per metro quadro), con la possibilità di richiedere deroghe per aumentare la densità fino a 39 o addirittura 42 chili per metro quadro (20/21 animali per metro quadro).

Il caso olandese, in questo senso, dovrebbe essere preso a modello. Un servizio del National Geographic ha spiegato come non solo gli allevatori abbiano rispettato le indicazioni del governo del 2009 di ridurre della metà l’uso degli antibiotici con un anno di anticipo (due invece che tre), ma che molti di loro abbiano trovato il modo di far quadrare i conti se non di guadagnare. Questo sebbene i cambiamenti degli standard siano costosi, almeno nel breve termine. Si tratta di cambiare le ricette dei mangimi, aumentare le temperature delle stalle, lasciare più spazio agli animali, lasciare che i cuccioli stiano più tempo con le madri. L’associazione Ciwf, che dice di prediligere un approccio costruttivo e non a caso ha cominciato a collaborare con un’associazione “pragmatica” come Legambiente, non ha problemi a citare chi anche in Italia sta facendo dei passi avanti. «Valverde per esempio si è dimostrato un produttore modello – commenta Federica di Leonardo -. Ha lavorato talmente bene nella prevenzione e nel miglioramento degli standard degli allevamenti che si è ritrovatq a non aver bisogno di utilizzare antibiotici». Come dimostra il boom del biologico, il mercato potrebbe premiare le carni provenienti da allevamenti antibiotic-free.

Sebbene marginale nel più ampio dibattito sugli antibiotici, il tema ha comunqe sollevato l’attenzione di parte della politica italiana. Nel gennaio 2016 alcuni deputati firmarono una mozione in cui chiedevano al governo di impegnarsi a «implementare un sistema di sorveglianza dell’antibioticoresistenza integrato fra gli aspetti di sanità umana e sanità animale». La prima firmataria, Ilaria Capua (Scelta Civica, virologa che fu accusata ingiustamente dall’Espresso di associazione a delinquere finalizzata alla diffusione di epidemie e che dopo l’assoluzione si dimise dal Parlamento), spiegava a gennaio a Radio3Scienza: «Una delle cause della resistenza agli antibiotici è l’abuso anche negli animali, non solo quelli da reddito ma anche quelli da affezione». «È necessario – continuava – che ci sia un sistema di sorveglianza efficace sia negli uomini che negli animali. Bisogna dare attuazione alle direttive comunitarie. La circolare del 2013 del ministro (Renato) Balduzzi è stata disattesa».