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Disabili e sport, gli ostacoli quotidiani

22 Settembre 2016

Dietro alle lacrime di Zanardi e il grido di Bebe Vio ci sono migliaia di disabili. Che praticano sport tra difficoltà e pregiudizi. Le loro storie a Lettera43.it.

P. ha nove anni ed è nato con una sofferenza cerebrale che gli ha provocato epilessia e ritardo cognitivo.
Dopo le riabilitazioni in piscina e l’ippoterapia, da poche settimane ha cominciato a giocare a calcio. E gli piace.
«Va agli allenamenti volentieri», racconta la mamma, «gioca con altri bambini, non è solo una terapia».
«UN TRAGUARDO GRANDIOSO». Castel San Pietro, provincia di Bologna. Qui da qualche mese è nata la Scuola Calcio Integrata Aiac Renzo Cerè. «Lo sport aiuta tantissimo questi ragazzi con disabilità intellettiva», spiega il presidente Davide Bucci che ha ‘reclutato’ allenatori e psicologi come Elenia Poli. «Lanciare la palla a un compagno significa comunicare con lui», ha sottolineato la dottoressa presentando il progetto. «Per loro è difficilissimo già far parte di un gruppo, imparare ad accogliere la palla è un traguardo grandioso».
Una bella storia che arriva dalla provincia, proprio dove praticare uno sport per un disabile è più difficile.

Calamai: «I disabili chiedono solo un amico con cui giocare»
Marco Calamai.

Calato il sipario sulle Paralimpiadi, sul grido di gioia emozionante di Bebe Vio e sulle lacrime di Alex Zanardi, il rischio è che si dimentichino le difficoltà quotidiane che migliaia di ragazzi con un handicap devono affrontare per fare sport.
«Soprattutto quelli che non parteciperanno mai a una Paralimpiade o a un campionato», dice a Lettera43.it Marco Calamai che dopo aver allenato squadre di basket in serie A, una ventina di anni fa anni ha cominciato a insegnare ai ragazzi con disabilità, mettendo insieme sullo stesso playground disabili e normodotati.
PIONIERE DELLE SQUADRE INTEGRATE. «Mi guardavano come se fossi pazzo», racconta. «In realtà avevo solo ascoltato le loro richieste: giocare con un amico più bravo o che nelle difficoltà ti sa sostenere».
Giocare con un amico. Nulla di meno e nulla di più.
«In campo servono un allenatore e qualche amico, non un terapeuta», insiste Calamai – tra le altre cose titolare di master universitari proprio su disabilità e sport – che vorrebbe una sola Olimpiade, per normodotati e disabili.
«LO SPORT NON DEVE ESSERE TERAPIA». Il problema è che siamo ancora imprigionati nei luoghi comuni. «Se ormai c’è consapevolezza dell’esistenza dei disabili», spiega il coach, «resiste ancora l’idea che abbiano sì diritto di fare sport ma come terapia. Occorre un salto di qualità. Questi ragazzi, esattamente come tutti gli altri, hanno diritto di fare sport per divertirsi. Se poi l’attività li aiuta e li fa stare meglio ben venga. Ma il fine non deve essere quello».
Oltre alle barriere architettoniche, sono queste barriere culturali che vanno abbattute: «Campioni come Zanardi sono esempi che trasmettono una grande forza. Dovrebbero parlare nelle scuole, ai ragazzi. Ma dobbiamo pensare al 99% di coloro che vorrebbero gareggiare a livello internazionale e che non potranno farlo mai perché banalmente non abbastanza bravi. La politica deve lavorare concretamente per loro».
INCARTATI NELLA TERMINOLOGIA. Invece finora ci siamo incartati nella terminologia.
Il passaggio da ‘handicappato’ a ‘disabile’ fino a ‘diversamente abile’ è stato letto come una conquista. «Ma i miei disabili», continua Calamai, «mi dicono che a loro non importa nulla di come li si chiami: oggettivamente sono handicappati. Chiedono solo di poter limitare le loro difficoltà».
E dire che la nostra legge, spiega ancora il coach, è una delle più avanzate in Europa: «Poi però spesso i ragazzi disabili restano fuori dalle classi, non partecipano alle attività, e gli insegnanti di sostegno non sono sempre preparati come dovrebbero».
UNA QUESTIONE DI ELASTICITÀ. La ricetta per una vera ‘integrazione’, anche se la parola come sempre è stata già superata da una più politically correct ‘inclusione’, è facile e a costo zero.
«La diversità è un valore», sottolinea Calamai. «Basterebbe un’ora alla settimana in cui ognuno possa fare quello in cui è più forte: sai suonare ma non sai fare di conto? Suona. Sai recitare? Recita. I compagni di classe li guarderebbero come fenomeni. Il problema è che servono elasticità e rispetto».
E come sempre servono investimenti.

Sport e barriere architettoniche: una corsa a ostacoli
Marco Borzacchini, presidente Fisdir.

Stando ai dati Istat nell’anno scolastico 2014-2015, gli alunni con disabilità erano quasi 87 mila nella scuola primaria (3,1%) e 66.863 in quella secondaria di I grado (3,8%).
E la disabilità intellettiva e i disturbi dello sviluppo rappresentano i problemi più frequenti.
Di contro, secondo l’ultimo rapporto di Cittadinanza attiva, nel 43% delle scuole italiane mancano posti auto riservati, nel 30% dei casi il percorso per raggiungere l’ingresso non è facilmente percorribile con una sedia a rotelle. Mentre solo il 23% degli edifici scolastici su più piani dispone di un ascensore.
IL 17% DELLE PALESTRE INACCESSIBILI. Le barriere architettoniche sono poi ancora pressenti nelle biblioteche (35%), nei bagni (28%) e anche nelle palestre (17%). 
Nel 78% delle aule in cui sono presenti studenti con disabilità motoria non c’è spazio sufficiente per consentire il movimento della carrozzina, e nel 73% dei casi non ci sono attrezzature didattiche o tecnologiche per facilitare la loro partecipazione.
«Le barriere architettoniche sono ancora presenti in una marea di impianti e palestre», conferma a Lettera43.it Marco Borzacchini, vice presidente del Comitato italiano paralimpico (Cip) e presidente del Fisdir, la Federazione italiana sport disabilità intellettiva e relazionale. «Le criticità sono soprattutto nei piccoli centri».
L’APERTURA VERSO LA DISABILITÀ. Detto questo, sono stati fatti enormi passi avanti. Ora, spiega il presidente, federazioni olimpiche e paralimpiche possono fare attività presso strutture aderenti al Cip: «Molte società per normodotati si sono aperte alla disabilità allargando di fatto gli orizzonti di chi vuole praticare sport».
Anche per Borzacchini, come per Calamai, una delle barriere più difficili da abbattere è quella culturale: «In Italia», dice, «lo sport si fa fuori dall’ambito scolastico perché non si crede molto nella sua funzione. Le famiglie così si rivolgono all’esterno». Il volontarismo certo aiuta, ma alla fine puoi fare sport solo se hai soldi, è il ragionamento.
«Il problema è di tutti», aggiunge Borzacchini, «ma per i disabili si aggrava. Basta pensare alle difficoltà nei trasporti».
Ma questo non è l’unico handicap dell’atteggiamento italico: «Da noi il disabile è standardizzato», spiega. «Le sue attività devono essere in qualche modo legate alla sanità, alla terapia».
DAI TRISOME GAME A RIO. La disabilità cognitiva, poi, ha contorni più difficili da stabilire visto lo spettro delle tipologie. «Sicuramente», chiarisce il presidente Fisdir, «è la più numerosa: stiamo parlando di circa 1 milione di persone. Il rapporto con la disibilità fisica è di 1 a 7».
Molto è stato fatto. Non solo con i Trisome game, le olimpiadi per atleti con la sindrome di Down, ma anche con la partecipazione di due campioni con disabilità intellettiva alle ultime Paralimpiadi di Rio: Ruud Koutiki nell’atletica e Xenia Palazzo nel nuoto.
Anche se di strada ce n’è ancora tanta da fare. «A parlare sono i numeri: gli iscritti Fisdir sono 9 mila, nella federazione gemella francese 52 mila», conclude Borzacchini.

«Passare la palla e restare un’ora e mezzo in campo: un miracolo»
I ragazzi in campo.

Nel campo di Castel San Pietro intanto si allena anche D. 17 anni, affetto da una forma severa di autismo.
«Ho provato diversi metodi», dice Valeria, la mamma, «nel nuoto, per esempio, mio figlio è fortissimo. È un nuotatore nato. Ma fin da quando era piccolo ha sempre avuto una predisposizione per il calcio Ricordo che palleggiava col nonno al parco e si divertiva». O, meglio: aveva la sensazione che si divertisse.
Già, perché D. non glielo ha mai detto. «Mio figlio non parla. Per comunicare usa il linguaggio dei segni», continua Valeria, «non il Lis ma un sistema individualizzato».
COMPETENZE PREZIOSE. Ora la mamma lo guarda giocare con gli altri ragazzini: «Vedo una sua grande collaborazione. Riesce a stare dietro alla palla, significa che c’è attenzione da parte sua. Imita l’allenatore che gliela passa».
Dettagli che chi non conosce l’autismo non nota. Ma che agli occhi di Valeria sono invece «piccoli grandi miracoli, perché sono competenze che non arrivano dall’oggi al domani».
«Sono sempre stata una forte sostenitrice dello sport come gioco, attività ludica», conclude. «E, credetemi, il fatto che D. riesca a stare in campo con altri per un’ora e mezza senza mettere in atto comportamenti aggressivi o problematici è davvero un miracolo, un grande miracolo».