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La violenza inelaborata

di Paolo Mottana 18 luglio 2016.

Foto tratta da aeon.co




È difficile parlare di
violenza. È una “parola-valigia” davvero consunta e spigolosa, piena di
trappole semantiche e in fin dei conti poco analizzata.


Appare piuttosto comico dover partire al solito dalle definizioni
però talora aiutano. 

Il dizionario dice due cose: 1) forza impetuosa e
incontrollata; 2) azione volontaria, esercitata da un soggetto su un
altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà (qui poi
ci sono una serie di sottocasi ma meno rilevanti).



Non è male, come punto di partenza: abbiamo da una parte un impulso
cieco e indeterminato (forza che si scatena senza che sia precisato come
e su cosa) e dall’altra parte invece la descrizione, in generale, di
un’ “azione volontaria” che obbliga altri o altro ad agire contro la sua
volontà (è vero, si parla di soggetti ma proviamo solo a pensarlo come
qualcosa diretto ad altro, per stare ancora un po’ lontani dalla
necessaria e troppo ovviamente ribadita violenza intraumana). Insomma da
una parte una scarica di forza (presumibilmente
indotta da quella cosa ugualmente complessa che noi chiamiamo rabbia e
che di solito si appoggia su ‘un’altra cosetta variabile di soggetto in
soggetto che invece possiamo definire aggressività). 

Dall’altra invece
ci troviamo di fronte a un gesto consapevolmente diretto a forzare qualcosa o qualcuno a
muoversi contro alla propria volontà e o aggiungerei forse,
natura. Insomma, se mi è consentito, e per ora io me lo consento, da una
parte la furia cieca (la chiamerei violenza calda) e dall’altra la
violenza deliberata (la chiamerei violenza fredda). Spero mi si
perdonerà la grossolanità di questa distinzione ma credo possa avere un
certo valore euristico, per dirla con le parole fini di chi fa la
ricerca.



Ora, sarebbe lungo e forse fuori luogo elencare tutte le forme di
violenza che ci circondano oltre a quelle di cui siamo di volta in volta
vittime o agenti (diciamo con questo termine neutro per non cadere in
gerghi criminogeni).



Prima sentenza dubitativa: siamo tutti vittime e attori di violenza, in un modo o nell’altro,
violenza cieca (tipo prendere a scarpate una porta che non si apre dopo
aver tentato di aprirla con metodi più consoni per un certo numero di
volte a seconda dell’indole e del grado di tensione) e violenza ben
vedente (tipo avvelenare una colonia di scarafaggi con un’insetticida
truculento solo “perché ci fanno schifo”). Capisco, sono esempi che non
si confanno alle dolorose cronache del nostro mondo, e tuttavia credo
sia importante tenerne conto.



Seconda sentenza dubitativa (lo dico solo per scrupolo professionale): la violenza è continua, onnipresente
e inevitabile. Lo so che qualche rousseau o qualche harikrishna di
buona volontà potrebbe mettere in dubbio ciò ma mi dispiace, io sto
dalla parte di Leopardi (cfr.
le numerose frequenze di questa riflessione cruciale nelle Operette,
nello Zibaldone, nei Canti e così via). Ovunque c’è battaglia, nella
natura, inutili gli esempi, tra le cose (perfino!), tra le cose e la
natura e infine tra l’uomo la natura e le cose. Tra tutti i violenti,
senza ombra di dubbio, uno dei più pervicaci e inguaribili è proprio
l’uomo. Non che non abbia altre qualità ma… questa disposizione, nutrita
di aggressività e di rabbia, è sempre presente in ognuno, con gradi
diversi di espressione comportamentale e di selezione dei destinatari.

.


Gli antichi, pace all’anima loro, sempre che ce
l’avessero, avevano coniato un buon modo e anche economico per
distinguere gli umani, con i tipi di bile presenti in essi: quella
gialla, fragorosa e feroce, quella rossa, sanguigna, quella nera,
mortuaria e algida, quella bianca, flemmatica e lenta. Ma non si
facevano illusioni: tutti questi tipi sapevano fare violenza ciascuno a
modo proprio. La bile gialla, che poi si è fatta coincidere con la
violenza tout court, era solo uno dei modi. Ci si guardi dalla
violenza dei melanconici, velenosa e mortifera, come da quella dei
flemmatici, fredda e ritardata, o dei sanguigni, corposa e talora
manesca. A ciascuno il suo. Che vuol dire? Vuol dire che una delle
manifestazioni costitutive del nostro mondo (e probabilmente dell’intero
universo è la forza cieca e incontrollata così come l’intenzione di
fare del male, per dirla in breve), specialmente quando quel mondo
procede a velocità supersonica incitando alla competizione e alle
sfide. 
La violenza, più o meno terribile, è un carattere permanente del nostro mondo, umano e non
Gli animali si aggrediscono continuamente, sono attanagliati dalla
paura, alberi, cespugli e fiori combattono tra loro per prevalere e
diffondersi, uomini, donne e bambini si colpiscono con l’ampia varietà
di strumenti che la cultura e la natura hanno loro riservato, senza
requie. La rosa degli esempi è talmente ricca e complessa che forse
varrebbe la pena di compilarne una enciclopedia. Tuttavia, nell’economia
forzata, per quanto possibile, di questo breve testo, mi toccherà
scegliere qualche situazione sensibile.



Il guaio è che sono davvero tante, anche solo quelle sensibili: la città è violenta
(come nel film del 70 di Sollima con Charles Bronson), troppo facile
fare esempi, la guerra tra pedoni e automobilisti, tra automobilisti
sigillati nelle loro auto condizionate e lavavetri, tra rumori, tra
natura e cemento, tra aria sporca e polmoni, nostri e di chi vive di
ossigeno intorno a noi ecc. ecc. Non mi ci soffermo anche se
meriterebbe. L’informazione è violenta
(ci dissemina quotidianamente di dolore, di disgrazie, di truculenti
casi di macelleria sicuramente più appetibili delle notizie normali
(parentesi nella parentesi: non dirò una cosa nuova dicendo che noi,
privati di violenza fisica, siamo poi affamati della visione della
violenza fisica e anche iperfisica), contribuendo, insieme alle città,
al lavoro, alle norme, ai doveri ecc. ecc., indubbiamente a far salire
quella cosa che noi chiamiamo stress ma che credo andrebbe meglio
tradotto con tensione e rabbia per le infinite frustrazioni e colpi cui
noi tutti, consapevoli o meno, siamo sottoposti da tutte quelle cose
insieme e anche molte altre).



Ma veniamo al sensibile sensibile, che più ci interessa, noi che ci
occupiamo dell’allegra umanità e delle sue sorti progressive.



Terza sentenza dubitativa: famiglia e coppia sono campi di battaglia sanguinosi. Tutti
lo sappiamo bene perché in famiglia, prima o poi, ma di sicuro prima,
tutti ci siamo passati. Naturalmente la maggior parte di noi si racconta
che la famiglia è un nido, una cuccia calda, un luogo di protezione e
di dialogo, di sollecitudine e di cura. Raccontiamocelo. Tuttavia di
solito non è così. Il conflitto è il vero piatto forte di ogni congrega,
specie quelle non elettive, e la famiglia lo è ben poco, fatto salvo un
certo desiderio reciproco provato in epoca remota tra i due principali
contraenti (la coppia genitoriale). Tutti gli altri vi sono capitati (i
figli) non per scelta. E dunque se ne deducano le molte complesse
conseguenze.



Ma veniamo a bomba: questa benedetta coppia, gli uomini maltrattanti e
le donne maltrattate. Per carità, vero, tutto vero, e antico almeno
quanto la nostra civiltà (postmatriarcale), fatto salvo che nell’ultimo
secolo (il XX soprattutto) le donne, invece che essere semplicemente
usate e buttate, emarginate e soggiogate, hanno risollevato le loro
sorti – dove più, dove meno, dove per nulla – e oggi spesso fronteggiano
i loro partner da pari a pari, talora pure con qualche punto di
vantaggio (che una volta, secondo il Baudrillard, comunque possedevano,
secondo il codice della seduzione, detto en passant).



Ora si dà il caso che, tra momenti di altissimo tripudio prossemico,
di beatitudine affettiva e fisica, di condivisione e di protezione
reciproca, si annidi il germe della guerra. Dolcissima e suggestivissima
certamente ma talora anche spaventosa e omicida. Mi si intenda, da
ambedue le parti. Non certo per sminuire l’orrore dell’omicidio in senso
letterale, o delle botte in senso letterale, fatto che, nella maggior
parte dei casi vede il maschio dalla parte dell’agente violento e la
femmina dalla parte della vittima (termine sempre un po’ troppo carico
di connotazioni ma ok) ma per ricordare che comunque di un teatro di
guerra non unidirezionale si tratta.



Appare certo semplicistico provare a dire, nel grande frastuono, che
anche le donne posseggono strumenti micidiali che uccidono (non in senso
letterale). Essere uccisi dentro, aboliti dal rifiuto e dal disprezzo,
dall’intelligenza (in media le donne sono più intelligenti e loquaci dei
loro compagni) di una donna, può essere catastrofico per una psicologia
maschile un poco rozza. Ma non voglio certo cavarmela con questa
minuscola pagliuzza nell’occhio dei giudici. Il fatto è che la coppia è
un organismo a rischio, lo si dica una buona volta. E ahimé
inemendabile. La cultura aiuta certo ma vi sono illustri intellettuali
che sono arrivati a uccidere la propria moglie (e mi risparmio gli
esempi).



Il teatro della violenza è antico almeno quanto la nostra mitologia e il substrato di pulsioni inconsce che la ha fomentata.
Vi ricordate Venere e Marte, che coppia eh! Se la facevano di
soppiatto, all’oscuro del pur astuto Efesto, che però a un certo punto
li mette tutti e due alla berlina nella famosa rete. Ma qui quello che
interessa è la coppia: Venere e Marte. Venere vuole Marte, e viceversa.
(Per una riflessione un po’ meno grezza di questa si veda Un amore
terribile per la guerra di Hillman). Marte non vuole Estia , per dirne
una, la dea del focolare. Vuole Venere, la bella e pericolosa. E lei
vuole lui, bellicoso e tuttomuscoli. 

E forse lo vuole così anche perché
nelle sue fantasie si aggira una pulsione masochistica, chissà. Ma anche
questo è troppo semplice e banale (per quanto mi torni in mente una
sentenza di Elisabetta Canalis che, in una trasmissione televisiva, a
un’intervistatrice che la interrogava sui suoi gusti maschili,
rispondeva: lo voglio con i muscoli, al cervello ci penso io. Meditare
su ciò, meditare…).



Ma sia: i maschi hanno i muscoli, fatti in palestra, non certo con il
lavoro o sui campi di battaglia, eufemizzazione che non trascurerei del
tutto per una sua oggettiva rilevanza (e comunque anche molte donne
hanno i muscoli da palestra) e ciononostante tanti sanno tenerli al loro
posto. E per fortuna. Se no altro che emergenza sociale! Gli uomini
sono ancora uomini, (benché talora demascolinizzati interiormente come
vuole certa psicoanalisi), ed è così che li vogliono molte donne
dall’indubbia e inopinabile femminilità. 

Forse, per evitare la violenza
domestica, una delle tante forme che assume il conflitto nel campo di
battaglia della coppia (tramato da gesti di minaccia, assenze, mutismi,
invettive, grida, oggetti innocenti percossi e demoliti, pratiche legali
più o meno virtuali ecc. ecc.) e tra le quali ahinoi anche quella
fisica ha un suo luogo, forse in chi (ma non sempre e non
necessariamente) vi è più abituato, occorrerebbe demascolinizzare definitivamente il maschio e
defemminilizzare definitivamente la donna, assestandosi su identità
intersessuali ormonalmente pacifiche (non si scomodi comunque la teoria
del gender, quella è ben altra cosa).



Ma insisto, conscio che mi sto facendo nemici e nemiche riga dopo
riga, vuoi l’uomo palestrato e già abituato a risolvere almeno parte dei
suoi conflitti con gli argomenti più diretti e incontrovertibili? Ok ma
poi ci sta che, al colmo della tensione, quando le parole, già in lui
non proprio abitudinariamente frequentate nelle loro più articolate
sfumature, vengono meno e la pressione sanguigna improvvisamente sale
vertiginosamente, qualcosa di implacabile e sinistramente materiale
faccia la sua comparsa. Non è igienico portarsi un bisonte in
casa. Questo non assolve certo i maschi violenti, figuriamoci.



Ora però, ora, freniamo. Non mi interessano gli argomenti legali né
terapeutici in senso personale, non credo ai casi individuali, né alla
malattia, né alla malvagità. Ogni uomo e ogni donna sono violenti, a seconda delle condizioni personali, della propria storia, della società in cui vivono e
anche a seconda delle loro doti genetiche. Non vi è dubbio poi che la
cultura, il linguaggio, un certo impulso a reprimere il gesto violento e
anche la politica abbiano concorso a ridurre le violenze più efferate.
Ma disboscarle completamente credo sia impresa davvero dura. Senza
contare, ripeto, che l’aggressività, quella, resta, e i motivi del
conflitto pure, umani troppo umani.


Ma permettetemi – sono un pedagogo in fin dei conti -, di concludere con un bagliore di speranza.


Quarta sentenza dubitativa:
nella nostra civiltà l’aggressività e la violenza restano
fondamentalmente inelaborate dall’educazione e dagli stili di vita
egemoni
.



L’aggressività in primo luogo. È
l’aggressività, pulsione umana, normale, diffusa a tutte le latitudini,
che però può, sottolineo, può trasformarsi in violenza ma non
necessariamente
. È soprattutto lei che andrebbe studiata
e trattata con più attenzione. Sul piano educativo siamo in alto mare,
la falla è talmente grossa che occorreranno decenni per porvi rimedio.
Cominciando dai corpi, i corpi negletti e inchiodati dei bambini e dei
giovani nelle istituzioni educative, specie dei giovani, si caricano di
tensione, sono repressi, castrati e inoperosi.



Prima misura cruciale: nell’educazione mettere al centro il corpo,
dargli la possibilità di esprimersi, scaricarsi, curarsi. Due orette di sport gli fanno il solletico e lo sport resta pur sempre una sublimazione. Ma vada la sublimazione, però anche con la musica, il teatro, l’arte, le performances, le arti circensi ecc.
ecc.. Ma poi esiste una elaborazione diretta, non analogica: le arti
marziali, che sono prevalentemente tecniche e esercizi di difesa, ma
direttamente a contatto con l’aggressività, con la forza, con lo spirito
guerriero, che in una forma o in un’altra alberga in tutti noi. 

Arti marziali,
del combattimento, della lotta fisica, per ragazzi e ragazze, senza
discriminazioni, perché si conoscano nel corpo e tra corpi, perché
misurino la loro potenza, la loro energia, la loro sensualità, perché si
sfoghino in un campo protetto e avvincente, scaricando al contempo il
piacere del vincere e la frustrazione del perdere.



Ma anche elaborazione educativa dell’aggressività mentale, nel linguaggio, nelle dispute, nel dissenso.
Esistono tecniche e arti del conflitto, della negoziazione, della
discussione, strategie dialettiche, della comunicazione dialogica ecc.
C’è tutto un territorio di conoscenza, autentica cultura polemica, che
almeno un poco aiuterebbe noi tutti a vivere la nostra aggressività come una risorsa
e non come un demonio da tenere sotto chiave finché non esplode. A
questa cultura occorre rivolgersi per elaborare le radici della
violenza, o almeno per provarci. Specie in epoca di intolleranza della
frustrazione.



Mi trattengo dal parlare del cosiddetto bullismo perché già ho detto la mia altrove, anche su questo blog.
Certo però che un minimo di apprendimento dal codice corporale delle
istituzioni totali forse ci aiuterebbe a capirne qualcosa in più… Ma mi
fermo qui.



E infine, diciamocelo. Lo diciamo lo diciamo ma non facciamo nulla. Questa nostra civiltà è intrinsecamente violenta, patriarcale nel profondo,
ben oltre ogni evanescenza dei padri. Una civiltà del rumore, della
velocità, della competizione, della produzione, dell’azione, delle
sfide, dell’eccellere ecc. ecc., fallocratica a 360 gradi, è come una
guerra continua, tutti contro tutti. E lo è, letteralmente. Fonte di
frustrazioni continue, di tensioni, di infinite e interminabili
battaglie, cosa ci aspettiamo che produca, oltre alle nostre “magnifiche
sorti”? Produce violenza, violenza soffocata, ignorante, invisibile
talora ma assai sensibile.


E talora anche violenza consapevole, intenzionale e forse anche
giusta, quando difende dei diritti e delle possibilità represse. Ma
questo aprirebbe un ulteriore complesso capitolo che per ora rimando.



E dunque? E dunque lo sappiamo:
finché non riusciremo a rallentare, a decongestionare, a concedere
spazio al silenzio, alla riflessione, alla meditazione, al piacere, al
riposo, al sonno, ai vuoti
. Finché non impareremo a fare
amicizia con ciò che non cresce, assolvendolo una buona volta, finché
non ci libereremo da questo mostruoso stile di vita che è il nostro e
che è il prodotto della forsennata voracità di questa civiltà del fare
inutile che è la nostra, sarà ben difficile vedere sorgere l’alba di un
mondo più soddisfatto, meno incazzato, meno assatanato di mete vane e
grottesche.



Intendiamoci, non che un mondo più mite possa cancellare la violenza.
No, figuriamoci, Marte non può essere cancellato, né le Amazzoni. E
tuttavia, può renderli più saggi forse, capaci di combattere senza
uccidere, di confliggere provando interesse e impegno per l’arte del conflitto,
e alla fine forse persino provare il desiderio di sedersi attorno a un
tavolo a dissipare la rabbia e lo stress nel vino e nel piacere. Forse,
forse (quinta sentenza dubitativa).



Ma questa, come diceva il barista di Irma la dolce, è un’altra storia.


FONTE: Comune-info.net