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Kenya, uno Stato in dissoluzione sulla strada del genocidio?

di Enoch Opondo, trad. Davide Galati, 29 luglio 2016.

Il Kenya sembra precipitare inesorabilmente verso un altro ciclo di violenza istigata dalla politica, in vista delle elezioni generali
del 2017. Si intensifica l’incitamento all’odio e ci sono anche
segnalazioni di gruppi che starebbero armandosi. La polarizzazione è
particolarmente profonda tra la comunità Luo da un lato e l’alleanza etnica Kikuyu-Kalenjin che governa il Kenya. 

Le immagini riportate sotto (per gentile concessione di Anyamah Wa Anyamah) provengono dal confine Nandi-Kisumu [Lago Vittoria, in direzione dell’Uganda, NdT] e sono state scattate verso la metà dello scorso giugno. Le foto mostrano i membri della comunità Luo attaccati e in fuga dalle loro case
alla ricerca di un rifugio lontano nella loro regione, dove sono stati
temporaneamente accolti in una chiesa (ad Achego) e nelle scuole
elementari locali. Questo è il risultato di una serie di attacchi e
uccisioni da parte di alcuni Nandi (un sottogruppo all’interno della
tentacolare comunità Kalenjin). La domanda è: sono sintomi di un genocidio in divenire?



Genocidio significa un piano coordinato di diverse azioni volte alla
distruzione delle fondamenta essenziali della vita di una comunità, con
l’obiettivo di annientare la comunità stessa. Gli obiettivi consistono
nella disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della
cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione, e
dell’esistenza economica di un gruppo, e l’annullamento della sicurezza
personale, della libertà, della salute, della dignità, e della vita
stessa degli individui appartenenti al gruppo.

Nel mondo contemporaneo, le differenze politiche sono una base importante per il massacro e l’annientamento di intere comunità.


È noto che la comunità Luo ha avuto contrasti significativi con il
dominio esclusivo del Kenya da parte delle due comunità Kikuyu e
Kalenjin. Non è quindi inverosimile suggerire che nella mente della
classe dirigente possa esserci l’idea che ‘il Kenya sarebbe un posto
migliore se non ci fossero i Luo a creare agitazione per un
cambiamento’.



Tenendo questo in mente, quanto avanti è il Kenya sulla strada per il genocidio, e quali sono le possibili misure preventive?

In un rapporto informativo originariamente presentato al Dipartimento
di Stato degli Stati Uniti nel 1996, Gregory H. Stanton affermò che il
genocidio è un processo che si sviluppa in otto fasi
che sono prevedibili, ma non inesorabili. Ad ogni fase, le misure
preventive sono in grado di fermarlo. Il processo non è
lineare.  Logicamente, le fasi più avanzate devono essere precedute
dalle fasi iniziali.  Ma tutte le fasi continuano a operare durante il
processo.



Nel Kenya contemporaneo, questo processo sembra essere in corso con il popolo Luo sul lato delle vittime.

Il primo stadio del genocidio è la classificazione (distinguere
le persone tra “noi e loro”). Il Kenya sta diventando un Paese sempre
più bipolare in cui i Luo sono ‘l’altro’. La principale misura di
prevenzione in questa fase iniziale sarebbe quella di sviluppare
istituzioni universalistiche che trascendano le divisioni etniche, che
promuovano attivamente la tolleranza e la comprensione, e che promuovano
classificazioni che trascendano le divisioni.



La chiesa può svolgere un ruolo in questo processo. Purtroppo la
chiesa in Kenya è a sua volta lacerata dalle stesse divisioni etniche in
via di sviluppo nella società keniota. La promozione di un linguaggio
comune può anche promuovere un’identità nazionale trascendente. Questa
ricerca di un terreno comune è di vitale importanza per la prevenzione
precoce del genocidio.


Il secondo stadio è la simbolizzazione, in cui a un’intera comunità vengono dato nomi o altri simboli. Ia Luo tendono a essere sempre più classificati come i ‘non circoncisi’,
un’etichetta che li rende ‘immaturi’ agli occhi di chi la utilizza. Il
loro modo di vita e la loro cultura sono derisi e viene spesso detto
loro che possono andare e unirsi ai ‘loro fratelli’ in Uganda e Sudan
del Sud.


La classificazione e la simbolizzazione sono universalmente umani e
non necessariamente si traducono in un genocidio, a meno che non
conducano alla fase successiva, la disumanizzazione. In combinazione con l’odio, i simboli possono essere apposti a forza sui membri di un gruppo trattato come paria.


Per combattere la simbolizzazione, i simboli utilizzati possono essere legalmente vietati come espressioni di odio. Anche marcature di gruppo come le cicatrici tribali
(simboleggiate in Kenya con la circoncisione) possono essere messe
fuori legge. Il problema è che le limitazioni di legge non avranno
successo se non sostenute da un’applicazione culturale
che diventi popolare. Parole in codice possono sostituire i simboli. Se
ampiamente sostenuta, tuttavia, la negazione della simbolizzazione può
essere un potente strumento per frenare la discesa verso il genocidio.


La terza fase è appunto la disumanizzazione,
in cui una parte della società nega l’umanità del gruppo preso di
mira. 

I membri di questo gruppo sono equiparati ad animali, parassiti,
insetti o malattie. La disumanizzazione consente di superare la normale
repulsione umana verso l’omicidio. In questa fase, la propaganda d’odio
attraverso stampa e radio viene utilizzata per denigrare il gruppo
vittima. Basta qui ricordare che c’è stato, ad esempio, un tentativo
concertato per far apparire i Luo come i precursori della pandemia di
HIV-AIDS che ha spazzato via parti del Kenya.



Nella lotta contro questa disumanizzazione, l’incitamento al
genocidio non deve essere confuso con la libertà di espressione. Le
società genocidali mancano di protezione costituzionale a favore del dialogo di compensazione [countervailing speech],
e devono essere trattate in modo diverso dalle democrazie. I leader
locali e internazionali dovrebbero condannare l’uso di espressioni
d’odio e renderlo culturalmente inaccettabile. Ai leader che incitano al
genocidio dovrebbe essere vietato viaggiare all’estero e congelati i
depositi finanziari. Le stazioni radio che promuovono l’odio dovrebbero
essere chiuse, e la propaganda d’odio rapidamente vietata. Crimini
d’odio e atrocità dobrebbero essere prontamente puniti.

Il quarto stadio è l’organizzazione. Il
genocidio è sempre organizzato, di solito da parte dello Stato, spesso
utilizzando milizie per riuscire a negare responsabilità statali. I Mungiki
in Kenya ne sono un buon esempio. A volte l’organizzazione è informale o
decentrata. Unità speciali dell’esercito o milizie vengono spesso
addestrate e armate. Vengono eseguite pianificazioni degli assassinii
genocidali.



Per combattere questa fase, l’appartenenza a queste milizie dovrebbe
essere messa fuori legge. Ai loro leader dovrebbero essere negato il
visto per i viaggi all’estero. L’ONU dovrebbe imporre l’embargo sulle
armi ai governi e cittadini di Paesi coinvolti in massacri genocidali, e
creare commissioni per indagare sulle violazioni commesse, come è stato
fatto in Ruanda.



La quinta tappa è la polarizzazione, in cui
gli estremisti spingono verso la separazione dei gruppi. Alcuni membri
della classe politica del Kenya sono abili in questo, ad esempio Moses
Kuria, un membro kikuyu del Parlamento, che recentemente è arrivato al
punto di invocare l’assassinio dell’ex primo ministro Raila Odinga, il
decano Luo dell’opposizione keniota.


I gruppi d’odio trasmettono una propaganda polarizzante. 
Le leggi
possono proibire i matrimoni misti o l’interazione sociale. Gli
estremisti prendono di mira i moderati, intimidendo e mettendo a tacere
il centro. I moderati appartenenti al gruppo dei responsabili sono più
in grado di fermare il genocidio, sono quindi i primi ad essere
arrestati e uccisi. La prevenzione può quindi significare protezione per
i leader moderati o assistenza ai gruppi di attivisti per i diritti
umani. Il patrimonio degli estremisti può essere sequestrato, e i visti
per i viaggi internazionali negati. Colpi di stato condotti dagli
estremisti e la conquista del potere politico-statale mediante
corruzioni e altri mezzi extra-legali dovrebbero essere contrastati
attraverso sanzioni internazionali.



In Kenya, il presidente Uhuru Kenyatta e il suo vice, William Ruto
sono stati incriminati presso il Tribunale penale internazionale a L’Aia
(ICC). Anche se sono cadute le accuse, i giudici hanno sottolineato che questo è stato a causa di intimidazioni e assassinio di testimoni.



La fase sei è quella della preparazione, in
cui le vittime sono identificate e separate a causa della loro identità
etnica. Vengono redatte liste di morte. I membri del gruppo vittima
sono costretti a indossare simboli che li identificano. I loro beni
vengono espropriati. Spesso sono segregati in ghetti, deportati in campi
di concentramento, o confinati in una regione colpita da carestia e
fame.



Ai nostri scopi, proposte per eliminare i leader Luo sono già state
descritte. In secondo luogo, sono stati individuati “focolai di
opposizione”. Questi includono Kibera (lo slum di Nairobi dove vivono
molti Luo), e città Luo come Kisumu, Migori e Siaya. Qualcuno suggerisce
come le economie di questi luoghi tendano a essere soffocati, e come
ogni volta che ci sono tensioni, si nota la brutalità delle forze di
sicurezza del Kenya contro i residenti di queste zone.

Stanton ha proposto che in questa fase debba essere dichiarata
un’”emergenza genocidio”. Se la volontà politica delle grandi potenze,
delle alleanze regionali, o del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite può essere mobilitata, dovrebbe essere preparato un intervento
internazionale armato, o fornita importante assistenza al gruppo delle
vittime per preparare la propria auto-difesa. In caso contrario,
dovrebbe almeno essere organizzata dalle Nazioni Unite assistenza
umanitaria e gruppi di soccorso privati ​​per l’inevitabile ondata di
rifugiati che ne deriverà.



La settima tappa, lo sterminio, ha inizio, e
diventa rapidamente assassinio di massa chiamato giuridicamente
“genocidio”. Per gli assassini si tratta di “sterminio”, perché non
credono che le loro vittime siano pienamente umane. Quando è
sponsorizzato dallo Stato, le forze armate lavorano spesso a fianco
delle milizie. A volte il genocidio sfocia in omicidi per vendetta da
parte di un gruppo contro l’altro, creando una spirale di genocidio
bilaterale.



Probabilmente questa fase non è ancora iniziata in
Kenya. Eppure, i cosiddetti “scontri etnici” e “violenze elettorali”
viste periodicamente in Kenya sono un indicatore di dove il Paese potrebbe dirigersi. Con
i Kikuyu e Kalenjin questa volta legati in un’alleanza politica di
convenienza, non è difficile immaginare che se la violenza erutterà,
saranno i Luo il bersaglio del genocidio.



Stanton afferma che in questa fase, solo un intervento armato rapido e
schiacciante può fermare il genocidio. Dovrebbero essere stabiliti
corridoi di fuga per i rifugiati e aree realmente sicure con una pesante
protezione internazionale armata. (Una zona “sicura” insicura è peggio
che nessuna area sicura). La Brigata di reazione rapida multinazionale
dell’ONU, la Rapid Response Force dell’UE, o forze regionali – dovrebbero essere autorizzate ad agire dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, se il genocidio è di piccole dimensioni.



Per gli interventi più vasti, dovrebbe interevenire una forza
multilaterale autorizzata dalle Nazioni Unite. Se l’ONU è paralizzato,
devono agire alleanze regionali. È tempo di riconoscere che la
responsabilità internazionale per la protezione va oltre gli interessi
ristretti dei singoli Stati nazionali. Se le nazioni forti non
forniscono truppe per intervenire direttamente, dovrebbero fornire
almeno ponti aerei, attrezzature e i mezzi finanziari necessari per
consentire l’intervento agli Stati dell’area.



La negazione è l’ottava fase che segue
sempre il genocidio. È tra i più sicuri indicatori di ulteriori massacri
genocidali. Gli autori del genocidio scavano tombe di massa, bruciano i
corpi, cercano di coprire le prove e intimidiscono i testimoni. Negano
di aver commesso alcun crimine, e spesso attribuiscono la colpa di ciò
che è successo alle vittime. Bloccano le indagini sui crimini, e
continuano a governare finché non sono cacciati dal potere con la forza,
dopodiché fuggono in esilio. Vi rimangono impunemente, come Pol Pot o
Idi Amin, a meno che non vengono catturati e un tribunale venga
istituito per processarli.



La risposta alla negazione è una condanna da parte di un tribunale
internazionale o da corti nazionali. In tali sedi posso essere rese le
prove, e puniti i responsabili dei crimini. Tribunali come quello
jugoslavo o ruandese, o tribunali internazionali come quello che ha
giudicato i Khmer Rossi in Cambogia, o il Tribunale penale
internazionale non possono scoraggiare i peggiori assassini
genocidali. Ma grazie alla volontà politica di arrestarli e perseguirli,
alcuni possono essere assicurati alla giustizia.


I tentativi di portare a giudizio i colpevoli delle violenze in Kenya
2007-8 sono probabilmente naufragati. Riteniamo tuttavia che, se non
viene avviata un’azione internazionale concertata e sostenuta, lo
scenario in Kenya può facilmente degenerare alla settima tappa; a quel
punto, riparare i danni portati al Paese si rivelerà un affare molto
costoso.

FONTE: Voci globali