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Il carcere senza sbarre

di Fabio Beretta, 19 luglio 2016.



Elevato numero di decessi e suicidi, mancanza di opportunità di lavoro e formazione, persone con problemi di consumo
(o abuso) di droghe e sostanze stupefacenti, problemi igienici e
sanitari, disagi psichici, discriminazione razziale. E’ questo il
ritratto delle carceri italiane. Un quadro al quale, purtroppo, siamo
ormai abituati. Così come non ci fanno più effetto le proteste di chi
denuncia una situazione al limite della civiltà, come il rapporto
dell’associazione Antigone.
Dietro le sbarre viene violata non solo la dignità umana, ma anche la
Costituzione italiana, che all’articolo 27 afferma: “Le pene devono
tendere alla rieducazione del condannato”. Un obiettivo non ancora
raggiunto in diverse nazioni del Vecchio Continente.


Forse è per questo che in molti hanno sorriso quando nel 2010, il vice ministro della giustizia norvegese disse
che la punizione di un detenuto consiste nell’essere in carcere e non
nel perdere i suoi diritti di cittadino. Nel Paese dei fiordi questo
intento etico è divenuto una realtà concreta, applicata ogni giorno
nelle strutture penitenziarie esistenti e seguita alla lettera nella
progettazione di quelle nuove. Nel carcere di massima sicurezza di
Halden non ci sono sbarre. Agli occhi di chi lo osserva da fuori
potrebbe sembrare un campus universitario o un ospedale. Non ci sono
guardie armate a pattugliare il perimetro della struttura. Tutt’attorno
immense distese di betulle. Sullo sfondo, i fiordi.


Nessun detenuto ha mai cercato di fuggire. Ciascuno di loro ha una stanza privata con televisione a schermo piatto,
una doccia, un frigo e mobili in legno. 

A differenza di quello che
accade nelle carceri italiane, i prigionieri trascorrono la maggior
parte della giornata fuori dalla loro cella giocando a baseball,
allenandosi sulle pareti da arrampicata. Vivono in comunità, si prendono
cura dell’ambiente tagliando la legna necessaria ad alimentare le
caldaie, coltivano orti e allevano animali. Tra di loro non ci sono solo
piccoli criminali, ma anche killer, stupratori e rapinatori. La durata
massima delle sentenze in Norvegia, anche per gli omicidi, è di 21 anni.
Quindi, le prigioni cercano di preparare i detenuti al ritorno nella
società e per questo ricreano un ambiente simile a quello delle città.



Halden, ribattezzata come “la prigione più umana del mondo”, è costata oltre 187 milioni di euro.
Per ogni singolo prigioniero norvegese, lo Stato spende circa 80 mila
euro all’anno: il triplo rispetto agli Usa. Non solo. 

Il sistema
giudiziario, identificato con la massima “meglio fuori che dentro”,
evita di incarcerare i cittadini. A finire in carcere sono circa 75
persone ogni 100 mila abitanti. Quasi un decimo rispetto ai 707 che si
registrano negli Stati Uniti, o i 103,8 in Italia.


La grande sorpresa è che il sistema nordico sembra funzionare: nel Paese scandinavo c’è un tasso di recidività
del 20 per cento, uno tra i più bassi al mondo. Tutto il contrario di
quello che accade nella civilissima America, dove il 75 per cento dei
detenuti vengono arrestati nuovamente dopo la scarcerazione. L’Italia
non se la passa meglio. Nel Bel Paese, infatti, la percentuale di
recidiva media è del 68,45 per cento. “Se trattiamo le persone come
fossero animali quando sono in prigione, è probabile che si comportino
come animali. Per questo qui cerchiamo di trattare i detenuti come
esseri umani”, ha riferito Arne Nilsen, ex direttore di una prigione
norvegese, in un’intervista al The Guardian.


Quando i detenuti vengono scarcerati, lo Stato interviene facendo in modo che riescano a trovare un lavoro
e una casa. Inoltre, per evitare che la povertà e la disoccupazione li
inducano a tornare a frequentare i circoli viziosi della criminalità, a
tutti gli ex galeotti sono garantite le cure pubbliche e una pensione
minima. “La vera giustizia è rispettare i prigionieri: in questo modo
insegniamo loro a rispettare gli altri – prosegue Nilsen -. Ma
continuiamo a tenerli d’occhio. È importante che quando siano scarcerati
siano meno propensi a commettere altri crimini. Così si crea una
società più giusta”.


Ovviamente, non mancano le critiche a questo sistema, soprattutto per il fatto che sembra attirare criminali stranieri,
spinti a “emigrare” nei fiordi visto il trattamento di lusso dei suoi
penitenziari. Ma ciò non accade. Merito anche, dicono alcuni esperti,
delle alte spese per il welfare stanziate ogni anno. In aggiunta a ciò,
la mancanza quasi totale di sensazionalismo dei mass media nel riportare
i crimini più efferati aiuta a diffondere quel senso di tolleranza
necessario per gestire un sistema di questo tipo. Tutto l’esatto
contrario di quello che accade in Italia, dove se si pensa alle carceri
vengono in mente i reati di mafia e quelli legati all’immigrazione.


Secondo il Time gli investimenti nella rieducazione dei carcerati
producono esternalità positive, valutabili anche in un risparmio
monetario sul lungo periodo. Per fare un esempio, le guardie carcerarie,
in Norvegia, godono di uno status elevato e si guadagnano il rispetto
dei detenuti non con le armi e la violenza, ma chiamandoli per nome,
mangiando con loro e facendosi coinvolgere nelle loro attività
ricreative. Dopotutto, ne era convinto anche Fedor Dostoevskij: “Il
grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”.

FONTE: Interris