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Burundi, scontro non solo etnico

03
Giugno 2016
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Preoccupa
il clima di violenza che è andato crescendo in Burundi da quando lo
scorso anno il presidente, Pierre Nkurunziza, è stato rieletto per
un terzo mandato in violazione della Costituzione. 

Arresti
sistematici di oppositori, eliminazione di chi è critico con il
governo, ritrovamento di fosse comuni sono, per alcuni osservatori,
segni premonitori di una deriva che può condurre a uccisioni su
larga scala. C’è chi teme si riaffacci, a parti invertite, il
genocidio del 1972.



Questa ipotesi, che pure non si può
escludere del tutto, non sembra però poggiare su fondati
presupposti. Nel 1972 ci fu un conflitto etnico e avvenne il massacro
di hutu per mano della minoranza tutsi allora al potere. La
ripetizione di quella tragedia sarebbe difficile da attuarsi dopo gli
accordi di Arusha, nel 2000, che hanno consentito la condivisione del
potere trovando un equilibrio su base etnica. 

Nel governo come
nell’esercito, agli hutu spetta il 70% dei posti chiave, ai tutsi
il 30%. Da rilevare che gli hutu rappresentano l’85% delle
popolazione, i tutsi il 14%. 

A differenza del vicino Rwanda – paese
gemello per lingua, cultura e composizione etnica, e questo potrebbe
trarre in inganno anche l’“esperto” – in Burundi l’intreccio
hutu-tutsi è più complesso, ed effettivo per certi aspetti, anche
per via di frequenti matrimoni interetnici.



Lo scontro è oggi più politico che
etnico. Per dire, il fallito colpo di stato del 13 maggio dello
scorso anno è stato organizzato da un militare hutu. E poi sia in
parlamento sia nelle file del Cnared, il movimento che riunisce la
maggior parte degli oppositori politici contro la deriva autocratica
di Nkurunziza, la composizione etnica è “meticciata”.



Contro il sistema di potere di
Nkurunziza militano tutsi e hutu. E i più critici sono i giovani,
urbanizzati e non, che non trovano lavoro anche se hanno in mano un
titolo di studio. 

Lo scontento monta pure tra le masse di contadini
sempre più impoveriti, esclusi dai benefici della modesta crescita
del prodotto interno lordo.


Il regime naturalmente reagisce. C’è
uno stillicidio di atti repressivi e di uccisioni, attuato dalle
forze di polizia spalleggiate dalle ancor più temibili milizie
imbonerakure,
composte da giovani militanti del partito del presidente, che si
chiama nientemeno Consiglio nazionale per la difesa della democrazia
– Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd).



Senza dimenticare che Nkurunziza può
contare, oltre che sul sostegno di “democrature” come Congo, Rd
Congo, Uganda, anche sullo sguardo benevolo della Francia. 

Parigi si
smarca volentieri dalle politiche europee e dalle direttive
internazionali perché interessata a mantenere la regione nella
propria orbita geopolitica: dopo aver perso nel 1994 il Rwanda (oggi
il regime di Paul Kagame è un controllato speciale, ma pur sempre
“benedetto” dagli Stati Uniti) non intende mollare la presa sul
Burundi.



Di fronte a questo scenario, la
comunità internazionale si è mossa. Ma Nkurunziza continua a
respingere la proposta di un contingente di peacekeeping
internazionale, avanzata dall’Onu e dall’Unione africana. Non
vuole intrusi in casa, cioè non accetta controlli di sorta. E
giustifica il rifiuto, affermando che il paese è in pace (anche se
solo al 95%!) e non è minacciato da nemici esterni (se non
potenzialmente dal Rwanda, con il quale c’è una storica
conflittualità).


Ma Onu e Ua non possono esimersi
dall’esercitare la loro pressione diplomatica sul governo burundese
perché torni a negoziare con le forze dell’opposizione. In linea
con gli accordi di Arusha, sottoscritti anche grazie alla mediazione
sudafricana, che rimangono il punto di riferimento fondamentale per
riportare pace nel paese.



Un’altra forma di pressione sul
governo sarebbe l’adozione da parte dell’Onu di un embargo sulle
armi. In Burundi circolano troppe armi, più o meno leggere, che
costituiscono una minaccia alla sicurezza dei cittadini e
pregiudicano il percorso verso la ricerca di una soluzione non
violenta allo scontro politico in atto.



Anche l’opinione pubblica
internazionale può dare un contributo a una soluzione negoziata, se
fa lo sforzo di non dimenticarsi di questo piccolo paese dell’Africa
dei Grandi Laghi, se si aggiorna sull’evolvere dei fatti, se
sostiene chi sul terreno (è il caso di quella Chiesa cattolica di
base non schierata con il regime) lavora ogni giorno per trovare una
via d’uscita condivisa.



FONTE: Nigrizia