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Sogni di pietra, uno scrittore azero per la pace con gli armeni

di
Margherita Cittadino, East Journal, 11 Maggio 2016.

Privato
del titolo di “Autore del popolo” e della pensione, sottoposto a
minacce e ritorsioni, dichiarato “apostata”, violentemente
attaccato ed insultato in pubbliche manifestazioni che sfociarono
persino nel rogo dei suoi testi: a tutto ciò fu (ed è) soggetto
lo
scrittore azerì  Akram Aylisli

dal 2013 anno di pubblicazione del suo romanzo
Sogni
di Pietra

(Guerini e associati, Milano, 2015, 131 pagine).



Una testimonianza dolorosa ed
importante di un confronto, ma molto più spesso scontro, tra due
popoli, armeno e azero in secolare e complessa convivenza. Aylisli
propone una lettura che solo all’apparenza suona “filo-armena”
nel trattare cruciali momenti del rapporto fra le due genti
caucasiche, trascendendo schieramenti e pertanto forme di ottuso
nazionalismo per invitare alla messa in discussione delle presunte
ragioni di entrambe le parti. 

Il fine ultimo, così dichiarato
dall’autore, è fare appello alla
fratellanza fra le due nazioni in conflitto
,
provando a riconoscere il torto proprio, ancor prima che dell’altro
e rivelando verità complicate da accettare.



Il racconto dell’autore si dipana su
piani temporali differenti
muovendo dall’anno della narrazione, ovvero il 1989, e procedendo a
ritroso nella riscoperta onirica dei ricordi legati all’infanzia
del protagonista Sadaj Saydigly. 

Il luogo “presente”, di
partenza, per così dire, è lo stato di degenza comatosa di Sadaj,
in seguito ad un violento attacco da parte di un gruppo di fanatici
azeri quando questi tentò di soccorrere un vecchio armeno anch’esso
brutalmente ferito.



Ed è proprio in relazione a tale
“presente” che il protagonista non viene più a riconoscersi
nella quotidianità della tragedia (inter)nazionale generatasi nella
critica realtà post-sovietica. 

Egli si percepisce moralmente
estraneo ai coevi meccanismi di violenza verso l’altro, alla
corruzione dilagante fra la classe dirigente che “castra l’anima
del popolo”, costringendolo al servilismo e ad un’obbedienza
pedissequa, dissociandosi al tempo stesso anche dalla massa
compatriota, bestie feroci che solamente in “branco” si sono
guadagnate il diritto alla parola e all’atto. A questo primo
luogo/tempo si interseca
una dimensione di sogno/ricordo

in cui egli peregrina in ricerca di un’armonia e dove un nodo di
paesaggi, figure, e parole del passato si viene a districare.



La città di Ajlis,
nella regione politicamente azera del Nakhichevan, dov’egli
trascorse la sua infanzia, è il luogo mistico del suo approdo. La
piccola cittadina testimonia la condivisione
di esperienze storiche, psicologiche e quotidiane della sua gente
composita
nel vivace
affresco di un idillio, sempre tuttavia effimero e rivelante i non
troppo antichi fantasmi della tragedia del Genocidio. Ajlis, con le
sue maestose chiese in pietra, permeata di luce, è manifestazione
nobile della ricchezza di una Cultura Unica, originata dal lavoro,
dall’intelligenza e dalla fede in un Dio, poco importa quale.



L’attenzione empatica nei riguardi
del popolo armeno da parte di Aylisli, l’esplicita ammirazione
della sua stoica resistenza dinnanzi ai molteplici drammi del loro
travagliato passato storico, sottolineando la piena responsabilità
dei suoi connazionali in eventi di efferata brutalità verso il
Vicino Cristiano: tutti elementi che  hanno portato ad
instaurare un’associazione di Aylisli con la presa di posizione ed 
il destino di Orhan Pamuk, il quale riconobbe il coinvolgimento del
governo dei Giovani Turchi – fino ad allora negato – nel
Genocidio: colui che propende ad “esser schiavo di una parola
onesta, piuttosto che signore della menzogna” , perde il proprio
Paese.