Cosa succede a un migrante che arriva in Italia
Immigrati tunisini a Manduria, Taranto (CARLO HERMANN/AFP/Getty Images) |
Hotspot, hub regionali, CAS e
SPRAR: una breve guida per orientarsi tra sigle incomprensibili e
procedure molto macchinose
Il sistema
di accoglienza dei migranti in Italia è diviso tra strutture di
prima e di seconda accoglienza. La prima accoglienza è gestita
dalle prefetture locali che rispondono al ministero dell’Interno, e
ne fanno parte gli hotspot e gli hub regionali (che a loro volta sono
nati dalla conversione di altre strutture che prima erano dedicate
all’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, come i CARA e
i CDA). La seconda accoglienza è formata dagli SPRAR
(Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).
Prima
accoglienza
Sulla
carta i migranti che arrivano “via costa”, come dice la road map
del ministero degli Interni del settembre 2015, devono passare per un
hotspot.
All’interno dell’hotspot ogni persona
viene identificata e fotosegnalata. In teoria – molto in teoria –
i migranti soccorsi in mare che fanno richiesta di protezione
internazionale all’interno degli hotspot vengono ricollocati negli
hub
regionali: si parla sia di quelli che rientrano nel cosiddetto
programma di relocation (siriani, iracheni, eritrei, che dovrebbero
andare nei paesi dell’UE secondo una serie di quote) sia di tutti
gli altri.
Quelli che invece non vogliono fare richiesta di asilo
dovrebbero finire nei
CIE
(Centri di identificazione ed espulsione) e ricevere un decreto di
respingimento.
Secondo
la road map del ministero, entro la fine del 2016 gli hub
regionali dovrebbero arrivare a mettere a disposizione 15.550 posti
rispetto ai 12mila del 2015.
Qui i richiedenti asilo dovrebbero
rimanere tra i 7 e i 30 giorni. Al termine di questo periodo i
migranti dovrebbero essere inseriti negli SPRAR
(Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), che sono
invece strutture di seconda accoglienza.
Seconda
accoglienza
La
seconda categoria, almeno sulla carta, viene gestita dalle
associazioni che presentano dei progetti in collaborazione con i
comuni nei quali verrà istituita la loro struttura. Quindi
un’associazione che vuole aprire uno SPRAR a Taranto, per esempio,
presenta un progetto insieme al comune di Taranto: c’è una
graduatoria, il primo vince e apre la struttura.
Qui entrano solo i
richiedenti protezione internazionale, in attesa che la commissione
territoriale competente – composta
da quattro membri, di cui due del ministero degli Interni –
valuti la loro domanda e decida se accettarla o meno. Nel 2015 i
posti garantiti negli SPRAR erano 22mila, nel 2017 il ministero
dell’Interno vorrebbe arrivare a 40mila. Gli SPRAR, a differenza
degli hub regionali, dovrebbero garantire percorsi individuali di
integrazione: si parla di corsi di italiano ma anche di altri
progetti che favoriscano una qualche formazione professionale.
Secondo la road map del ministero dell’Interno, la commissione
territoriale dovrebbe decidere la sorte dei richiedenti asilo entro
180 giorni dalla loro richiesta (di solito le associazioni si fanno
carico dei ricorsi, in caso di diniego). In realtà i tempi sono
molto più lunghi e ci sono richiedenti protezione internazionale che
attendono oltre un anno prima di ricevere la risposta dalla
Commissione territoriale competente.
I
problemi
Anche a
causa dell’intensificazione dei flussi migratori del 2015, l’intero
sistema è ingolfato. Gli SPRAR sono pieni e i richiedenti protezione
internazionali rimangono nel sistema di seconda accoglienza per più
tempo del previsto, proprio a causa delle lentezze delle commissioni
territoriali (che sono aumentate di numero, comunque). A questo si
aggiungono le resistenze dei comuni a partecipare a progetti che
potrebbero portare all’apertura di nuovi SPRAR, visto il costo
politico che una decisione di questo tipo potrebbe comportare.
SPRAR sono pieni, si crea una specie di tappo che blocca il
trasferimento dei migranti dalla prima alla seconda accoglienza. Per
questo sono stati aperti i CAS (centri di accoglienza
straordinaria), che sono una specie di replica degli hub ma che di
fatto ospitano richiedenti protezione internazionale che avrebbero
diritto ad accedere al circuito degli SPRAR. Anche i CAS sono gestiti
dalle associazioni e cooperative che rispondono a un bando del
ministero dell’Interno.
FONTE: Il post