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Un viaggio in Israele mi ha reso antisionista

di
Joseph
Finlay,
vice,
14 Aprile 2014.



È
un rito di passaggio. 

Per molti ebrei inglesi l’anno sabbatico in
Israele è imprescindibile, parte di un momento essenziale del
percorso che farà di ognuno un membro adulto della comunità
ebraica. 

Io, comunque, non l’ho vissuto con un particolare trasporto
ideologico. 

Ero cresciuto con la vaga idea che Israele e il sionismo
fossero parte integrante dell’essere ebreo, e avevo deciso che era
giunta l’ora di farmi una mia idea. 

Per quel poco che ci pensavo,
sostenevo la sinistra israeliana e i coloni non mi piacevano—era
quella la posizione della sinagoga del nord di Londra che
frequentavo. 

Per me, in quel periodo, essere di sinistra ed essere
ebreo era più o meno la stessa cosa. 

A quanto ne sapevo Israele era
nel giusto, era impegnato nelle trattative di pace, e l’unico
problema era un’irrisoria minoranza di coloni ultraortodossi.




Così nel 1999, a 18 anni, sono andato
in Israele—per ironia della sorte, in quello che oggi è
riconosciuto come il picco del processo di pace, durante i negoziati
del governo di Ehud Barak a Camp David e Taba. 

Non si è mai più
andati più vicino di così alla pace. 

L’associazione giovanile con
cui ero partito non brillava per organizzazione, e mi avevano spedito
da solo in un kibbutz; lì, più che stare con altri ebrei
britannici, avevo incontrato persone di passaggio da tutto il mondo e
anche molti volontari. 

Col senno di poi, è stato meglio così. 
Durante le prime settimane, associavo l’euforia di essere per la
prima volta lontano da casa tutto solo con Israele; i suoi paesaggi,
la gente, la lingua. 

Mi sono anche innamorato dello stile di vita del
kibbutz, l’uguaglianza, i pasti in comune, il senso generale di
empatia.

 


Non sapevo molto delle tensioni
etniche—ricordo che un kibbutznik mi aveva detto di stare attento a
fare l’autostop il venerdì per andare alla sinagoga perché c’erano
“arabi in giro.” Ma durante i pomeriggi liberi (dopo che mi
hanno tolto dalle piantagioni di banane è stato tutto in discesa)
visitavo le città della zona. 

Sono rimasto particolarmente
impressionato da Acri (o Akko, o Akka), sulla costa. 

Mentre la
maggior parte delle città di Israele avevano palazzi moderni, Acri
vecchia—in una zona a prevalenza araba palestinese—conserva
ancora molti edifici ottomani ed è un labirinto di vicoli, angoli
nascosti e bancarelle. 

Ne sono rimasto estasiato. 
Seduto su uno
scoglio del porto sotto il sole autunnale, mentre guardavo le piccole
imbarcazioni e il Mediterraneo che si apriva fino all’orizzonte, ho
avuto una specie di rivelazione: il mio posto preferito in Israele
era una città araba.
 
Mi sembrava che molte città
israeliane fossero prive di quella sensazione di profondità, di
memoria storica e serenità che mi ispiravano le torri e i muri di
pietra di Acri. 

 

Akko / Acri. Foto di Chris Yunker


Il calore e la calma che ho percepito in quel luogo
mi hanno spinto a mettere in discussione l’idea di separazione tanto
popolare in quel periodo—il “noi siamo qui e loro sono là.” 

È stato allora che ho capito che volevo vivere non in un paese
nazionalista, in cui a dominare era la cultura di un solo gruppo, ma
in uno in cui culture diverse vivono, magari non proprio d’amore e
d’accordo, l’una accanto all’altra. 

Ho capito che ero dalla parte
della soluzione di uno stato unico—che invece della divisione,
Israele/Palestina avrebbe dovuto diventare uno stato solo per tutti i
suoi cittadini, con gli stessi diritti e la stessa libertà di
movimento per chiunque.



In quei giorni di trattative di pace
una posizione simile era certamente un po’ insolita, ma non
completamente campata in aria. Sembrava che tutti volessero la pace e
il rispetto dei diritti umani, e l’idea di un’unica nazione era stata
appoggiata anche da figure tradizionalmente “sioniste” come
Martin Buber, Judah Hamagnes e Hannah Arendt. 

Perciò, anche nel
prendere una posizione “di nicchia” mi sentivo in qualche
modo parte del dibattito e della comunità.


Ma quando nell’autunno del 2000 mi
sono iscritto all’università le cose erano cambiate: eravamo agli
inizi della Seconda intifada, le trattative di pace erano un ricordo
del passato e Ariel Sharon era diventato Primo ministro. 

Da quel
momento c’è stato come uno spostamento generale a destra; hanno
cominciato a dare la colpa al “terrorismo palestinese” per
il fallimento degli accordi di Oslo, a chiudere un occhio sulle
azioni militari israeliane, e a mettere “la sicurezza”
davanti alla pace e dei diritti umani. 

Il mio sostegno allo stato
unico non era più un’eccentricità che non faceva male a nessuno, ma
una in contrasto con quello che pensava la grande maggioranza degli
ebrei. 

Ho cominciato a descrivermi come anti-sionista, dato che avevo
la chiara impressione che a quel punto, e indipendentemente dalle
premesse del pensiero sionista precedenti alla nascita di Israele, la
dottrina dello stato unico mi mettesse in netto contrasto con il
sionismo.




All’università ho fondato un gruppo
di ebrei di sinistra, pacifisti, che denunciava le violazioni dei
diritti umani a opera degli israeliani durante la Seconda intifada. 

Criticavamo il sistema dall’interno, facevamo manifestazioni,
volantinaggio. 

E abbiamo anche avuto dei guai, dato che la società
ebraica tollerava poche critiche alle politiche
israeliane—sicuramente meno di quelle che facevamo noi. 

Eravamo
ebrei osservanti pur senza essere solidali con Israele, e questo per
molti era difficile da comprendere.




In seguito, con un
amico che avevo conosciuto durante l’anno sabbatico, ho fondato
Jewdas. È un gruppo
della diaspora con un’esplicita posizione anti-sionista, che mette
alla berlina le tante assurdità della comunità ebrea britannica, e
organizza feste coi fiocchi. 

L’obiettivo di Jewdas è di riportare
alla ribalta quella parte della storia e della cultura ebraica che
non ruota intorno a Israele, e in particolare la cultura yiddish, il
socialismo e la storia degli ebrei nell’East London. 

È cominciato
nel 2005 come uno scherzo tra noi, ma 11 anni dopo è ancora in piedi
e dà spazio agli ebrei progressisti, radicali e della diaspora del
Regno Unito che non si sentono rappresentati dall’opinione dominante. 

La pace e la giustizia in Israele/Palestina sembrano lontanissime, ma
Jewdas vuole dimostrare che gli ebrei possono vivere benissimo anche
senza rifarsi all’etnocrazia, e senza compromettere i valori
tradizionali dell’ebraismo.

Molto è cambiato negli anni, ma ancora
ricordo quel giorno d’autunno in cui, seduto su quello scoglio ad
Acri, è cambiato per sempre il modo in cui penso e vivo.