Il Burundi è a un passo dal genocidio
Gwynne Dyer, trad. di Federico
Ferrone,
Internazionale, 26 Aprile 2016
La buona notizia è che le violenze in
Burundi non sono ancora sfociate in una guerra civile come quella che
ha ucciso trecentomila persone tra 1993 e 2005, né tantomeno un
genocidio come quello che ne uccise ottocentomila nel vicino Ruanda
nel 1994.
La cattiva notizia è che questo potrebbe succedere presto.
È difficile dire qualcosa di positivo
sull’ex presidente della Fifa Sepp Blatter. Ma l’Africa gli
sarebbe stata molto riconoscente se fosse riuscito a convincere il
presidente del Burundi Pierre Nkurunziza a non presentarsi per un
terzo mandato e ad accettare invece il ruolo di “ambasciatore del
calcio” per la Fifa.
Poco tempo fa, quando questa storia è
emersa nell’autobiografia di Blatter, il ministro degli esteri
svizzero che aveva avuto quest’idea ha spiegato che “l’obiettivo
era contribuire a una soluzione pacifica che evitasse l’attuale
crisi in Burundi”.
La cosa avrebbe potuto persino
funzionare.
Nkurunziza è un appassionato di calcio e ha già messo
da parte abbastanza denaro per la sua pensione.
Ma ha deciso di
restare al potere e presentarsi per un terzo mandato, rimettendo il
Burundi in marcia verso l’inferno.
I presidenti africani hanno due gravi
difetti.
Il primo è che sono convinti di essere insostituibili: nel
2000 quasi due terzi dei paesi africani prevedevano un massimo di due
mandati presidenziali nelle loro costituzioni, ma da allora in dieci
di questi stati i presidenti hanno cercato di abolire tale limite.
L’ultimo in ordine di tempo è stato il Ruanda, il cui presidente
Paul Kagame potrebbe restare in carica fino al 2034.
Ma la scusa di Nkurunziza è stata
particolarmente patetica. Era diventato presidente alla fine della
guerra civile, nel 2005, quando la pace era ancora precaria.
Non
c’era tempo per organizzare delle elezioni, ed è quindi stato
eletto presidente tramite un voto parlamentare.
Così l’anno scorso Nkurunziza ha
cominciato a sostenere che il suo primo mandato non doveva essere
considerato perché era stato scelto dal parlamento e non dal popolo.
Anche il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, al settimo mandato,
ha trovato la cosa divertente.
“Dici che il primo mandato non
conta, ma sei comunque rimasto in carica per cinque anni!”, ha
dichiarato durante un vertice dell’Unione africana a giugno.
La Corte costituzionale del Burundi
però ha accettato la rivendicazione di Nkurunziza, anche perché
contraddirlo sarebbe stato pericoloso. In seguito uno dei giudici ha
lasciato il paese e ha rivelato che lui e i suoi colleghi erano stati
tutti minacciati. I partiti d’opposizione hanno boicottato le
elezioni dello scorso luglio, e già allora il livello di violenza
aveva cominciato a salire rapidamente.
Le violenze sono cominciate dopo un
tentativo di colpo di stato per impedire le elezioni farsa. Il conto
dei morti è attualmente intorno ai quattrocento.
Le vittime note
sono perlopiù attivisti politici e comuni cittadini assassinati
dalla polizia nella capitale Bujumbura.
Il vero numero è
probabilmente molto più alto.
È raro che gli omicidi nelle aree
rurali vengano denunciati, ma nel 2015 almeno 250mila persone sono
fuggite dal paese e vivono attualmente in campi profughi nei paesi
vicini.
Fino a poco tempo fa l’unica
consolazione era che non si trattava di uno scontro tribale. Sia il
genocidio del Ruanda sia la guerra civile del Burundi hanno opposto
la maggioranza hutu (85 per cento della popolazione) alla minoranza
tutsi, un tempo dominante.
Dai tempi della guerra civile, tuttavia,
l’esercito del Burundi è equamente diviso tra i due gruppi etnici,
e i gruppi d’opposizione comprendono sia hutu sia tutsi.
Purtroppo l’altro grave difetto dei
presidenti africani, è che se appartengano al gruppo dominante (come
spesso accade) quando sono in difficoltà la loro soluzione
predefinita è rispolverare le alleanze tribali.
Ed è proprio quello
che sta facendo Nkurunziza.
I tutsi vengono epurati dall’esercito,
e i sostenitori hutu del presidente stanno cominciando a usare la
stessa retorica che si sentiva prima del genocidio in Ruanda.
Révérien Ndikuriyo, il presidente
del senato del Burundi, ha definito gli oppositori del regime
“scarafaggi”, lo stesso termine usato per riferirsi ai tutsi
dagli estremisti hutu in Ruanda. Ha persino invitato i sostenitori
del governo a “mettersi al lavoro” (kora),
la stessa parola d’ordine usata in Ruanda nel 1994.
Nkurunziza sta cercando di trasformare
uno scontro politico che rischiava di perdere in un conflitto etnico
che potrebbe vincere. Il prezzo da pagare sarebbe però un nuovo
genocidio. Il futuro di tutto un paese potrebbe essere sacrificato
alla sua ambizione personale.
L’Unione africana si è offerta
d’inviare cinquemila soldati per sedare le violenze, ma ha fatto
marcia indietro quando Nkurunziza si è opposto.
Ci sono 19mila
caschi blu delle Nazioni Unite appena al di là del confine con la
Repubblica democratica del Congo, ma non c’è la volontà politica
di impiegarli.
Finora i partiti d’opposizione (che
naturalmente sono perlopiù hutu) stanno resistendo ai tentativi di
Nkurunziza di usare i tutsi come capro espiatorio.
Ma nel paese più
povero del mondo molti hutu potrebbero sfruttare le bugie del regime
per impadronirsi della terra dei loro vicini tutsi.
Il prossimo
genocidio africano potrebbe essere questione di giorni.