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Davanti o dietro alle cineprese, le donne iraniane sfondano lo schermo

by Tlaxcala, 20.04.2016. 



Rim Ben Fraj ريم بن فرج



Übersetzt von 
Milena Rampoldi میلنا رامپلدی



Herausgegeben von 
Fausto Giudice Фаусто Джудиче فاوستو جيوديشي



Le
giornate del cinema iraniano, una tradizione affermatasi passo per
passo negli ultimi anni, è oramai giunta alla quarta edizione tra il 7 e
il 9 aprile 2016 in varie sale cinematografiche della Tunisia. In
programma lunghi metraggi recenti, documentari e, come ciliegina sulla
torta, il noto film Nahid, premiato a Cannes. La voce e lo sguardo
femminili sono sempre più presenti in questo cinema, specchio di una
società in costante mutazione, ove le donne sono più numerose degli
uomini nelle università e in numerosi settori quali l’insegnamento, la
medicina o la giustizia. Una realtà sociale che si scontra con la sharia
(legge islamica in vigore), che  giorno dopo
giorno dimostra di essere una gabbia troppo
stretta. Ed è ancora una volta il cinema a dare un assaggio delle
rivoluzioni venture, che non
assomiglieranno a nulla di conosciuto.


Nahid, una macchia rossa in un oceano di grigio

Nahid, il primo lungo metraggio dell’iraniana Ida Panahandeh, è stato proiettato a La Marsa, ove sfortunatamente non
è stato apprezzato a sufficienza dal pubblico. Questo film invece ha
molto da dire ad un pubblico tunisino, soprattutto femminile.
Nahid a 32 anni. Quando aveva 20 anni, la sua
famiglia ha organizzato il suo matrimonio combinato con suo cugino
Ahmad, eroinomane, sperando di poterlo guarire dalla sua dipendenza.
Purtroppo non è stato così.  Dopo 10 anni finalmente divorziano. La
legge iraniana in genere affida i figli al padre, ma Ahmad lascia Amir
Reza a Nahid, a condizione che lei non si risposi. Nahid combatte per la
sopravvivenza. Visto che i call center ancora non sono arrivati a
Bandar-e Anzali, fa la dattilografa nel cybershop di un’amica.
Sembra
che tutto possa cambiare quando conosce Masoud, proprietario di un
hotel sulla spiaggia, vedovo con una figlioletta dai capelli rossi. Come
legalizzare la loro unione senza che Nahid perda suo figlio? Si presta
la soluzione sciita: concludono un matrimonio a termine di un mese,
rinnovabile, facendo credere alla famiglia di Masoud che si tratti di un
vero matrimonio e nascondendolo alla famiglia di Ahmad. Per sfortuna,
la spiaggia di Bandar-e Anzali è sotto videosorveglianza – l’Iran è un
paese moderno – e Ahmad per caso viene a sapere che la “sua” Nahid
frequenta un altro. Scoppia uno scandalo, seguito da un melodramma che
coinvolge le tre famiglie.


La regista Ida Panahandeh (a sinistra) insieme all’attrice Sareh Bayat
Ida
Panahandeh, la regista, ha 36 anni. Sulla sua prima infanzia pesa il
ritmo delle immagini televisive della guerra tra Iran e Iraq. Suo padre
muore nel 1988, lasciando la madre solo a 32 anni con due figlie e una
ricca biblioteca. Ida divora i libri di Balzac, Tolstoj e Zola. Sua
madre non si risposa e Ida si chiede da sempre per quale motivo e come
ha fatto a sacrificarsi per i suoi figli. Lo scenario del film, redatto
insieme a Arsalan Amiri, di cui dice che non solo è suo marito e
co-sceneggiatore, ma anche il suo migliore amico, si ispira moltissimo
alle rispettive madri.
Il
film si svolge nella città portuale di Bandar-e Anzali, sulla riva del
Mar Caspio, nell’Iran settentrionale, abitata da una minoranza azera
turcofona e conosciuta per la sua produzione di caviale. Un mare fonte
di ricchezza, ma non di apertura, al contrario, un mare minaccioso e
pericoloso durante la stagione invernale del film.
In
tutto il film la tonalità dominante, anzi schiacciante, è il colore
grigio in tutte le sue sfumature. L’unico colore irrompente è il rosso
del sangue di Nahid, di Ahmad, di Amir-Reza e dell’inverosimile divano
rosso che Nahid si regala per un capriccio che lei stessa non riesce a
spiegarsi. Questo colore acquista un forte valore simbolico nella
cultura persiana: gli abiti nuziali sono rossi. Ma allo stesso tempo il
rosso simboleggia anche la sofferenza e la rivolta.
Nahid
non è una feminista di New York o della Marsa e neppure la regista.
Rappresenta milioni di donne come noi: trentenni, precarie, che non
sanno come pagare l’affitto e la scuola dei figli. Ricorre alla
strategia della sopravvivenza quotidiana che conosciamo alla perfezione e
costituita di mille acrobazie. Una delle grandi verità di questo film
consiste nel fatto che per vivere in modo dignitoso bisogna essere
indipendente e per essere indipendente ci vuole denaro. Senza denaro,
niente amore. E questo è vero indipendentemente dal fatto se si vive in
Iran o in un altro luogo di questo mondo. Nahid potrebbe essere
tunisina, greca o polacca o persino americana. E questo aspetto i
critici europei, da Cannes a Stoccolma, non hanno voluto coglierlo.
Da
sinistra a destra: l’attore Navid Mohammadzadeh, l’attrice Sareh Bayat,
l’attore Pejman Bazeghi e la regista Ida Panahandeh in occasione del
68esimo Festival di Cannes, il 17 maggio 2015. Fotografia di Andreas
Rentz/Getty Images Europe
Selezionato per la sezione Un certain regard a Cannes nel 2015, Nahid è
stato accolto come testimonianza “lodevole” – un aggettivo
accondiscendente ed insopportabile – dell’inferno che vivono le povere
donne iraniane. Ida risponde che l’Iran non è più repressivo per le
donne che altri paesi, che le donne vengono oppresse ovunque, e aggiunge
che è più semplice per una donna realizzare un film in Iran, visto che
il regime ci tiene a trasmettere una buona immagine del paese all’estero
mediante film realizzati da donne. Ida precisa che il suo film prima di
tutto è un film sul dilemma di una donna tra la sua womanhood (femminilità) e la sua motherhood (maternità).
È molto delusa dalle reazioni occidentali al suo film, focalizzate
sulla “situazione femminile in Iran” che ignorano le qualità tecniche ed
estetiche del film: il direttore della fotografia Morteza Gheidi per il
quale questo è stato il primo lungo metraggio, è stato anche premiato
al Festival internazionale dei Fratelli Manaki, nella Repubblica di
Macedonia. Si tratta di un premio “Caméra 300” più che meritato visto
che tutti i piani del film sono di una bellezza commovente, in
particolare le scene della spiaggia sullo sfondo del mare agitato e
quelle del fiume che attraversa la città.
All’uscita
dalla proiezione eravamo solo in cinque spettatrici e spettatori e
all’entrata del centro commerciale Zéphyr, abbiamo avuto modo di
costatare che da noi, come del resto anche in Iran, tutta una società
cerca di vivere nella contraddizione esplosiva tra una modernità
tecnologica esteriore e un atteggiamento di passitismo conservatore. In
queste società schizofreniche, con o senza velo, viviamo tutto una
doppia vita come Nahid.
Ovviamente
la Tunisia e l’Iran sono molto diversi: li devono lottare contro una
sharia in vigore che una minoranza ha voluto imporci qui.
 
Il divorzio: una vera e propria maratona per le donne iraniane
Per farsi un’idea di questa lotta vale la pena guardare il documentario “Divorzio all’iraniana”,
realizzato nel 1998 da Kim Longinotto e Ziba Mir-Hosseini, attuale oggi
come allora. Le due registe hanno ripreso la vita quotidiana di un
tribunale della famiglia di Teheran, presieduto da un giudice-mollah
sorridente, davanti al quale sfilano le donne che richiedono il divorzio
dai loro mariti patetici.
Tutte
queste donne pensano in una logica della rivendicazione: vogliono far
valere i loro diritti, il pagamento della dote promessa e mai pagata,
richiedono compensazioni, il diritto di tenersi i figli; a loro volta,
gli uomini pensano in una logica del diniego e della malafede. Le donne
vogliono cambiare la loro vita, divenuta insopportabile, mentre gli
uomini invece vorrebbero che non cambi nulla. Una è stata sposata a soli
14 anni con un uomo di 36 che non ha mantenuto il suo impegno
contrattuale di permetterle di continuare gli studi; l’altra si ritrova
sposata con un uomo incapace di adempiere i suoi obblighi coniugali; una
viene picchiata, l’altra tradita da suo marito.
Divorzio all’iraniana è
un’opera di sociologia politica applicata: vien in mente che tutte le
donne, insieme, sono le attrici vere e proprie del cambiamento sociale
che si sta attuando in Iran, e che tutti gli uomini, insieme, sono i
veri agenti del conservatorismo sociale. Il giudice-mollah, che dà prova
di una pazienza da monaco zen, incarna perfettamente lo Stato forzato a
navigare tra questi due poli, cercando di essere imparziale e il più
giusto possibile. Ma anche lo Stato si trova nella trappola della
sharia, essa stessa in discrepanza con la società reale.
Le promesse dal nord: mito e realtà
In Una riga di realtà (یک سطر واقعیت,)
di Ali Vazirian, film uscito nelle sale nel 2012, viene affrontato un
altro tipo di lotta, quella di Kasra e Forough, una coppia egalitaria di
giornalisti di Teheran che cerca di salvare una rivista letteraria,
minacciata dalla scomparsa a causa di un irrigidimento del regime che
per timore di perdere il controllo sui media usa metodi indiretti che
riconosciamo. Dall’inizio alla fine si vive un suspense fatto di tagli
da forbice, di ingiunzioni di pagamento degli ufficiali giudiziari, di
minacce del tipo big brother is watching you e di promesse
strane. Per farla breve si fa fatica a galeggiare nella crisi. La coppia
alla fine si ritrova arenata ad Istanbul, dopo aver rotto i ponti con
l’Iran, per scoprireche la promessa di un sostegno finanziario di “gente
ben intenzionata” a Stoccolma che “desiderava sostenere blogger e
giornalisti iraniani” non era che una truffa. Alla fine viene fuori che
Forough, che nella coppia era quella con i piedi più per terra, aveva
ragione di non fidarsi di questa proposta strana di aiuto, caduta dal
cielo svedese.  
Hossein Yari (Kasra) e Mehraveh Sharifinia (Forough)
Come
l’abbiamo capito, il messaggio del film è il seguente: certo, la lotta
per la libertà d’espressione qui ed ora risulta difficile e si potrebbe
essere tentati di lasciar perdere per andare a tentare la propria
fortuna in Canada o in Svezia: ma non fidatevi di tutti gli amici ben
intenzionati del nord che vi vogliono “bene”.
La
società che ci viene mostrata in questi tre film è effervescente,
conflittuale e le sue componenti più dinamiche sono come ovunque le
donne e i giovani. In questo senso questi film si rivolgono a noi.