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I dittatori sono trendy

Redazione Italia

di Germano Monti, Frontierenews.it, 21 Marzo 2016



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Può un autorevole quotidiano nazionale trasformarsi in un’agenzia di pubbliche relazioni di un dittatore? Si, almeno in Italia si può.

L’intervista in due parti effettuata dal direttore di Repubblica,
Mario Calabresi, e dal giornalista Gianluca Di Feo al feldmaresciallo Al
Sisi, rappresenta una pagina nera per il giornalismo italiano. Nel corso della lunghissima conversazione con il dittatore egiziano a proposito del martirio di Giulio Regeni, i due giornalisti non hanno posto nemmeno una domanda riguardante i ripetuti depistaggi tentati dalle autorità egiziane dopo il ritrovamento del corpo di Giulio (qui la prima parte dell’intervista, qui invece la seconda).

Meno che mai i due intervistatori hanno osato ricordare che in Egitto le sparizioni di oppositori,
o presunti tali, sono all’ordine del giorno e che, meno di una
settimana prima, anche il Parlamento Europeo aveva votato a grandissima
maggioranza una risoluzione di condanna del regime egiziano, sia per la gestione della vicenda di Giulio, sia per le innumerevoli violazioni dei diritti umani.

Né Calabresi, né il suo vice Di Feo hanno chiesto conto al
feldmaresciallo dell’assenza di collaborazione mostrata dalla polizia
egiziana nei confronti del team di investigatori italiani al Cairo ormai
da un mese. In compenso, si sono bevuti, senza battere ciglio e senza
chiedere spiegazioni, le insinuazioni di Al Sisi nei confronti di non
meglio identificati Stati e partiti “nemici dell’Egitto” e delle sue
ottime relazioni con l’Italia, avallando silenziosamente quella versione di comodo
più volte smontata proprio dai due giornalisti di Repubblica (Carlo
Bonini e Giuliano Foschini) che seguono la vicenda di Giulio
dall’inizio.

Il fatto che ad intervistare con queste modalità il dittatore siano
stati il direttore ed il vicedirettore di Repubblica, anziché i due
inviati che stanno conducendo da settimane un ottimo lavoro di inchiesta, non può che indurre a pensare che, dietro quell’intervista, vi sia stato un preciso obiettivo politico. 

In sintesi, Calabresi e Di Feo si sono assunti il compito di ripulire l’immagine del dittatore,
di fronte ad un’opinione pubblica italiana fortemente impressionata e
indignata per quanto avvenuto, fornendo ad Al Sisi un’autorevole tribuna
per presentarsi come uno statista, preoccupato per la
proliferazione di gruppi terroristici, per la stabilità del suo Paese e
persino compassionevole con le persone costrette ad emigrare, quando
chiunque si interessi alle vicende mediorientali conosc
e bene il
trattamento riservato dalla polizia e dai militari egiziani ai migranti.

potere politica dittaturaVa detto che Calabresi e Di Feo non sono stati i soli giornalisti
italiani a mettersi al servizio di personaggi impresentabili. Prima di
loro, nell’opera di ripulitura dell’immagine di un dittatore
sanguinario, si era cimentata Monica Maggioni, che per ben due volte si è
premurata di mettere le telecamere del servizio pubblico a disposizione
di Bashar Assad, il tiranno siriano responsabile della feroce repressione
che ha prodotto migliaia di morti sotto tortura, decine di migliaia di
desaparecidos e la trasformazione di un movimento di popolo pacifico e
riformista in una guerra che ha distrutto la Siria. 

Prima in veste di direttrice di Rai News, nel settembre 2013, poi
in quella di presidente della RAI, nel novembre dello scorso anno, la
Maggioni si è recata a Damasco per omaggiare il dittatore con due
interviste che definire compiacenti è un eufemismo.

Di fronte a questi episodi, è necessario interrogarsi sul fascino,
nemmeno tanto discreto, esercitato da personaggi che dovrebbero essere
banditi da ogni consesso civile. Difficile non pensare che questo
“fascino” sia strettamente legato ad un orientamento politico che tende a
privilegiare la stabilità e le relazioni affaristiche rispetto a
qualunque altro elemento, fosse pure la più efferata violazione dei
diritti umani.

Un orientamento messo in difficoltà dal fatto che un cittadino
italiano sia caduto vittima di un regime amico, verso il quale il nostro
Primo Ministro si è più volte lanciato in spericolate manifestazioni di
stima e di amicizia, caso unico (e imbarazzante) fra i leader dei Paesi
che si vogliono democratici, i quali intrattengono con Al Sisi ottime
relazioni, ma – per senso di opportunità o, più semplicemente, per
pudore – si tengono lontani dal servilismo mostrato da Matteo Renzi.

Questo orientamento, percepibile anche nel decisionismo renziano
nelle questioni di politica interna, sembra pervadere anche i media
mainstream: dopo l’intervista di Repubblica, il caso Regeni è di fatto
scomparso da quasi tutti i quotidiani ed i notiziari televisivi, come in
obbedienza ad un ordine di scuderia. Se le cose stanno così, sarà
necessaria una grande mobilitazione dell’opinione pubblica e della società civile per impedire che sull’intera vicenda cali l’oblio e che la richiesta di verità per Giulio Regeni non si dimostri solo uno slogan.