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Ghetto Venezia 500 anni, oltre i recinti delle paure.

di Rosanna Codino, ansa, 30 Marzo 2016.
>>>ANSA/ Ghetto Venezia 500 anni, oltre i recinti delle paure © ANSA
Shylock, il
più celebre ebreo di Venezia, uscito dalla penna di Shakespeare, è
il simbolo del ghetto di ieri e dei ‘ghetti’ di oggi: pretende
l’uguaglianza nella diversità, sottolineando la sua identità
universale, quella di uomo.
E’ suo il
volto ideale delle manifestazioni con cui Venezia vuole ricordare i
500 anni di vita del suo ghetto, il più antico del mondo ma anche il
più aperto, un unicum nell’universo dei luoghi urbani di
costrizione.
E non solo
per essere quasi sospeso in mezzo alla città, protetto dallo scudo
di edifici che hanno sfidato il cielo, potendosi espandere solo in
altezza.
“La
mia famiglia ha origini ebraiche, ma non ho avuto un’educazione
religiosa e ho scoperto queste radici ormai quasi adulto – racconta
Vittorio Colombo dal banco della libreria Don Chisciotte -. Ci sono
moltissime cose da dire del ghetto; la sua originalità rispetto
all’urbanistica lagunare, cosa non da poco in una città che sembra
uniformemente storica ma in realtà assai varia. E’ uno dei pochi
angoli a ricordarci la Venezia di un tempo, ancora viva e vissuta, la
città delle donne sedute in campo, intorno a una vera da pozzo”.
   
I residenti
ebrei del ghetto sono attualmente una trentina (sostituiti nel corso
degli anni dai veneziani non ebrei) ma più di 500 risultano gli
iscritti alla Comunità ebraica.
Claudio
Scarpa, direttore dell’Associazione Veneziana Albergatori, si
descrive come un “amico dell’ebraismo”, avendo una moglie
di origini ebraiche e una sorella convertita.
“Cosa
rende questo luogo così speciale? Il patrimonio intatto delle sue
sinagoghe e un Museo – dice – che non ha paragoni nel resto d’Europa.
Un ghetto non ghetto verrebbe da dire, luogo di incontro di culture”.
Al punto
che sono centinaia i veneziani e i turisti che stanno contribuendo al
restauro delle preziose vetrate della sinagoga spagnola, destinando a
questo scopo un euro del biglietto d’ingresso. 
Per il Rabbino della
Comunità ebraica di Venezia, Scialom Bahbout, l’identità del ghetto
di Venezia ha curiosamente il sapore e il colore inusuale della
polenta.
“La
prima volta venni a Venezia nel 1954 – rivela – mia madre lavorava
nella Casa di riposo e io e mia sorella arrivavamo da Tripoli per
festeggiare la Pasqua. Nel menu c’era la polenta di mais, un piatto
che non avevamo mai mangiato nella ricorrenza. Mi fece impressione ma
testimoniava quanto anche nella cucina le barriere razziali fossero
state infrante”.
 
E’ un
ricordo dolceamaro, invece, quello che testimonia da Israele la
scrittrice di origini padovane Manuela Dviri, autrice tra l’altro di
Un mondo senza noi” edito da Piemme. “
Il ghetto
di Venezia, nonostante il suo straordinario fascino, mi fa sempre una
certa malinconia – rileva -. Adoro l’eleganza delle sue scole e
l’incanto misterioso dei suoi dedali e cunicoli, segreti e labirinti,
e nello stesso tempo, con quei suoi palazzi di sette piani in cui si
viveva ammassati perché altra soluzione non c’era, rimane per me
sempre e comunque angosciante, simbolo di repressione e costrizione
in cui i miei avi furono costretti per secoli”. E’ passato mezzo
millennio dalla sua creazione, afferma, e sembra che i muri, i ghetti
e i reticolati “stiano tornando di moda, anzi molti se li
augurano, per potersene chiudersi dentro o per chiuderci dentro
altri, quelli che sono diversi da noi e che ci fanno una gran paura”.
“Ma la paura è una pessima consigliera.
Per questo
il ghetto deve rimanere ammonimento contro ogni chiusura, fisica o
mentale, ogni costrizione e ingiustizia – conclude – un inno alla
libertà e all’apertura all’altro, per quanto difficile possa
essere”.