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L’ubuntu applicato al giornalismo

Carissime lettrici, carissimi lettori,

eccovi la versione italiana dell’intervista che ho condotto questo mese con il Signor Reto Thumiger di Pressenza Germania sui temi della non-violenza e dei media pacifisti.

Grazie della vostra attenzione.

Saluti cordiali

Dr. phil. Milena Rampoldi di ProMosaik e.V.


ProMosaik e.V. intervista Reto Thumiger di Pressenza
Germania

Che cosa significano per te
personalmente l’umanesimo e il Nuovo Umanesimo?
Per me l’umanesimo consiste in questi
tre aspetti essenziali: l’essere umano come valore centrale, la nonviolenza e
il principio che dice  di trattare
l’altro come si vorrebbe essere trattati. Soprattutto l’ultimo aspetto per me riassume
lo stile di vita dell’Umanesimo Universalista. Personalmente sono semplicemente
stanco della sofferenza in me e intorno a me. Mi rifiuto di accettare il mito
secondo cui la sofferenza sarebbe parte integrante della vita e la violenza
faccia parte dell’essere umano. L’obiettivo perseguito dall’umanesimo consiste
nel superamento del dolore e della sofferenza. E a questo fine vanno superate
violenza e discriminazione per ritrovare la giustizia sociale, non solo qui in
Germania o in Europa, ma in tutto il mondo. Non vi sarà alcun progresso,
se  non sarà un progresso per tutti. 
A differenza di altri umanesimi, il
mondo interiore acquista, per l’Umanesimo Universalista, un’importanza
centrale. Una trasformazione radicale dell’essere umano e della società infatti
per forza di cose necessita una dimensione interiore. L’essere umano non è solo
fatto di carne ed ossa, ma è soprattutto un essere spirituale. Il razionalismo,
soprattutto in Occidente, ha prodotto 
grandi danni; dobbiamo farsi guidare dall’ispirazione, avere i piedi per
terra, con la testa nel cielo.

Quali sono gli obiettivi principali che persegui
con il tuo impegno nell’agenzia di stampa Pressenza?
Ci sono numerosissimi progetti pacifisti
nel mondo. Ma Pressenza segue un nuovo approccio nel settore sociale dei media
che ancora nessuno ha avuto il coraggio di fare. Tutti sanno intuitivamente che
i media vivono delle diverse forme di violenza. Praticamente si nutrono di
esse.   
Quando avevo 5 anni, avevo convinto i
miei genitori di poter andare a letto appena dopo i notiziari della sera. Ma il
telegiornale lo trovavo noiosissimo e, visto che in quel periodo di sera
facevano sempre vedere le immagine della guerra dell’Jom Kippur, ho chiesto a mio
fratello maggiore quando sarebbe finalmente terminata quella guerra, perché
pesavo che dopo non ci sarebbero stati altri telegiornali. Lui mi ha spiegato
con pazienza che c’erano sempre delle guerre da una parte o dall’altra e che
per questo i telegiornali ci saranno sempre. L’aneddoto ovviamente fa
sorridere. Il ragazzino che crede che dopo la fine di una guerra finiranno anche
i telegiornali noiosi e dunque potrà guardare finalmente i suoi film divertenti.
Questo momento per me è stato determinante per il mio futuro impegno per la
nonviolenza; in quel momento per la prima volta ho riflettuto sulla società e ho
sentito che qualcosa non andava. Inoltre questo aneddoto autobiografico
dimostra che ben presto nella testa di un bambino si crea la relazione tra
guerra e media. Ora basta sostituire la parola guerra con il termine violenza e
già ci troviamo nella quotidiana realtà dei media. 
Sappiamo che i media non rappresentano
la realtà, ma la creano. Gli sguardi dei giornalisti alla ricerca di violenza
promuovono e producono la violenza. 
Pressenza cerca esempi di risoluzione dei
conflitti, di riconciliazione, di distensione e tutti gli elementi che creano unione,
tutti i fattori che promuovono e raccontano la nonviolenza e la pace. Non si
tratta di quello che scriviamo, ma di come lo scriviamo, e cioè mettendo uno sguardo
nonviolento sul mondo. L’obiettivo principale perseguito da Pressenza consiste
nel suo contributo al superamento della violenza.

Che importanza acquista il giornalismo
oggi per la pace e i diritti umani, in un mondo dominato dal giornalismo freddo
della guerra e del potere?
Stiamo vivendo un momento molto critico.
Siamo di nuovo in presenza di un conflitto militare in Europa, quale risultato
dell’aumento del potenziale di aggressione tra le potenze militari mondiali.
Non vorrei parlare dei retroscena. In questa situazione i media rivestono un
ruolo importante, divenendo uno strumento di propaganda, tramite il quale la
popolazione viene preparata ed abituata ad un conflitto militare.  

Molte giornaliste e molti giornalisti iniziano la loro professione in buona
fede e poi si perdono nella linea redazionale della maggioranza dei media. Il
risultato sono giornalisti pagati e frustrati che si fanno strumentalizzare,
invece di scoprire, accusare i veri colpevoli e mostrare i diversi aspetti di
un conflitto. Ai giornalisti si insegna che devono mantenere la distanza, anche
nei confronti delle cose “buone”. Invece in momenti di crisi come questo i
giornalisti devono uscire dalla loro “posizione di reporter” e prendere
posizione per la pace e la nonviolenza. I giornalisti sono cittadini  e non possono nascondersi dietro un tesserino
da giornalista, mentre con le loro parole  invocano una nuova guerra. In questo contesto,
ad esempio, penso al coraggio di Gabriel Krone-Schmalz, ex corrispondente
dell’ARD a Mosca, o di Ken Jebsen, ex moderatore dell’RBB che hanno compiuto
questo passo nel nome della responsabilità.
Nella storia ci sono momenti in cui la
società si trova in bilico tra progresso o regresso, pace o violenza,
accettazione o rifiuto della vita. Il giornalismo e i media possono ingigantire
una situazione e per questo il giornalismo riveste un ruolo essenziale per la
pace e la nonviolenza.
Pressenza è una piccola agenzia di
stampa, ma piano piano sta diventando un servizio di stampa riconosciuto con
contenuti affidabili sui temi della pace, del disarmo e della nonviolenza.
Pressenza persegue l’obiettivo di fornire ai media tradizionali articoli sulla
pace per contribuire ad un  diverso tipo di
giornalismo. Inoltre sempre più persone cercano informazioni e punti di vista
al di fuori dei mass-media manipolati. A queste persone Pressenza vuole offrire
un giornalismo serio e pacifista. Ci occupiamo anche della formazione di nuovi
attori dei media nel settore del giornalismo della pace e della nonviolenza.
In questo modo, a livello internazionale,
promoviamo una sensibilità crescente che rifiuta la violenza e la
discriminazione.  

Che strategie vedi per diffondere questo
giornalismo positivo per la pace e i diritti umani?
Non siamo i soli che si impegnano per
una società nonviolenta. E il problema consiste proprio in questo: i media
tradizionali ci trasmettono l’idea secondo cui il mondo sarebbe pieno di pazzi
armati e le masse cariche di odio e di rifiuto. Giorno dopo giorno ci vengono
presentate delle menzogne che ci mostrano un’immagine brutta ed alienata della
realtà. Infatti ci sono tante persone che amano la pace, la tolleranza e la
solidarietà. La grande maggioranza vorrebbe superare guerra e violenza. Esiste
un gran numero di iniziative, gruppi, organizzazioni e individui singoli che si
adoperano quotidianamente per vivere questi ideali. Interi movimenti come gli
indignati in Spagna ad esempio.
Per poter correggere questa percezione
errata della realtà, dobbiamo metterci in rete, creare connessioni, condividere,
trasmettere e diffondere le informazioni. E soprattutto dobbiamo dialogare
nella vita reale e nei social media per creare una dinamica e un flusso. Ormai
il desiderio di pace non si può più ignorare. Per questo Pressenza è anche un
progetto aperto, a cui possono partecipare e contribuire tutti.

Che cosa hai portato dall’Africa per la
tua vita e per il tuo pensiero?
Rispondere completamente a questa
domanda supera definitivamente i limiti di quest’intervista. Cosa mi ha
impressionato di più, è comunque la concezione sudafricana dell’Ubuntu. Molti,
sentendo questa parola, pensano al sistema operativo di Linux. Originariamente
il termine deriva dalla lingua zulu e comprende un intero concetto filosofico.
L’essere umano non è un individuo indipendente ma una parte inseparabile di una
rete vivente. Ognuno di noi è collegato con tutti e fa parte del tutto. Se
qualcuno agisce in modo violento e arreca danno a una o più persone, l’unità ne
rimane danneggiata. E sono tutti a subirne le conseguenze. Vendicandosi
dell’altro, non si risolve nulla. Infatti si raddoppia solo il danno arrecato
al tutto. Si può solo riparare un danno, curandosi e riconciliandosi. Solo in
questo modo si riesce a ricostruire il tutto. Sono rimasto molto colpito da
questo pensiero che mi ha fatto capire l’insensatezza della nostra concezione
dell’occhio per occhio. 
Per questo non mi meraviglio affatto che
il lavoro fantastico svolto dalla commissione della verità e della
riconciliazione in Sudafrica durante il regime dell’apartheid e che per me
rappresenta la strategia che ha ottenuto il massimo successo, non faccia parte
delle culture ebraica, cristiana e islamica, ma della cultura africana
dell’Ubuntu.

Come si inizia a costruire una cultura
della pace e della tolleranza nell’ambiente intorno a noi?
Una cultura della nonviolenza inizia in ciascuno
di coloro che non ne può più della sofferenza e della violenza. La sofferenza
deriva sempre dalla violenza. 
Si deve riconoscere la violenza in noi
stessi, la violenza che abbiamo esercitato e quella che ancora esercitiamo e quella
che abbiamo subito e ancora subiamo. In questo contesto non si tratta solo di
violenza fisica, ma di tutte le forme di violenza (psicologica, sessuale,
razzista, economica, religiosa, ecc.). Inoltre devo iniziare a capire in che
modo la violenza è ancorata nella mia cultura. La cultura in cui sono cresciuto
fa sempre parte di me, indipendentemente dal fatto se la accetto o meno. E la
violenza fa parte di tutte le culture del mondo. 
La decisione di non voler più soffrire e
una riflessione sulla violenza sono i primi passi nella direzione giusta. In
questo modo inizia tutto ciò che ci permette di riconciliarci con noi stessi e
con gli altri. Intendo riconciliarsi e non perdonare. Da questa riconciliazione
derivano poi le altre azioni nel mio ambiente personale e
nella società.