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Da Amatrice a Norcia, quella grande bellezza che ci commuove solo quando è persa

30 Ottobre 2016

Abbiamo i centri storici più belli del mondo e le periferie più brutte. Il nostro rapporto con la bellezza è tale perché sappiamo che senza saremmo un Paese miserabile. Per questo dobbiamo preservarla. Piangerla quando è crollata sotto i colpi di un sisma non serve a nulla

Perché ci commuoviamo tanto per la Basilica di San Benedetto a Norcia, e guardando le sue macerie ci sentiamo in lutto anche se stavolta, per fortuna, non ci sono morti, non ci sono bare, non ci sono persone intrappolate sotto i calcinacci? È una chiesa, e non delle più importanti. Non ci va quasi nessuno, solo turisti. Rende qualcosa ai ristoranti nei dintorni, niente a chi la gestisce: l’ingresso nelle chiese non si paga. E però, persino se non ci siamo mai entrati, la sentiamo nostra: indagare su questo sentimento di desolazione e tristezza significa indagare nel profondo di noi stessi, noi italiani, noi che camminiamo ogni giorno in mezzo alla bellezza e ci accorgiamo quanto conti, quanto cambi la nostra percezione del reale, solo quando viene giù all’improvviso.

In una delle dimenticate polemiche della nostra cronaca politica, nel 2012, Sergio Marchionne parlando a un forum europeo sulla mobilità (inconsapevole della presenza di un giornalista) si riferì a Firenze come a una «piccola povera città», e si partirà da lì per capire come la guerra tra dinamiche economiche e bellezza sia qualcosa di molto concreto, assai diverso da una costruzione nostalgica e sentimentale. Quella guerra è in corso da molti anni nelle nostre città e nelle nostre campagne, e la bellezza è al momento soccombente, il suo valore è disconosciuto del tutto dagli attori del mercato per cui conta il “quando costa”, il “quanto rende” e niente altro. Abbiamo i centri antichi più belli del mondo e le periferie, le aree industriali, le new town probabilmente più brutte e scassate. Il sentimento di dissipazione e tristezza che proviamo davanti alla facciata della Basilica di Norcia ridotta a un muro con le orbite vuote arriva anche da lì, dalla consapevolezza che quella bellezza è irripetibile: non sappiamo più fare cose così semplici, così armoniche, così amichevoli per l’uomo anche se costruite per celebrare la divinità.

Il sentimento di dissipazione e tristezza che proviamo davanti alla facciata del Duomo di Norcia ridotta a un muro con le orbite vuote arriva anche da lì, dalla consapevolezza che quella bellezza è irripetibile: non sappiamo più fare cose così semplici, così armoniche, così amichevoli per l’uomo anche se costruite per celebrare la divinità
E però c’è anche altro. C’è la consapevolezza, improvvisa, che la bellezza ci consola. Che la povera piccola Italia sarebbe miserabile e stracciona, ridicola addirittura nelle velleitarie ambizioni da cui è tarantolata ogni tanto – ponti avvenieristici, centri congressi galleggianti nel vetro, gallerie titaniche – se quella bellezza non testimoniasse le sue millenarie capacità di fare, cadere, risorgere e rifare. Levate cento chiese e cento piazze a Roma (non dico il Colosseo o i Fori) e Roma diventerebbe una metropoli da Blade Runner: insopportabile, invivibile, anche se in quelle chiese non ci entriamo mai e in quelle piazze passiamo solo a Ferragosto, quando riusciamo a parcheggiare. Levate un castello, una pieve, un monastero, certi vicoli a saliscendi sotto gli archi medioevali, a uno qualsiasi dei borghi italiani e quel borgo diventerebbe un paesetto da niente, disperata provincia da cui fuggire appena possibile. La bellezza ci salva anche se non ce ne accorgiamo, anche se le passiamo davanti indifferenti perché è sempre stata lì e non la vediamo nemmeno più.

Oltreché piangere, e promettere miracolose ricostruzioni, il terremoto – questo, in particolare, perché non ci sono vittime e si può parlare d’altro – dovrebbe servirci per quardarci intorno, e renderci conto del valore che ha la bellezza nelle nostre vite, le vite di noi italiani, e di come la bellezza stia perdendo terreno e sia necessario, urgente, prendere le sue parti nell’amministrazione dello spazio pubblico e considerarla valore quantomeno alla pari del valore economico. Pretendere bellezza e armonia nei progetti, demolire il brutto, impedire che ne sia edificato altro, chiedersi per prima cosa davanti a un’opera, a una soluzione urbanistica, a un progetto: è bello? Rendere, in qualche modo, la bellezza del passato “ripetibile”, affiancata da nuova bellezza magari molto diversa ma piacevole e amabile allo stesso modo. Il senso di lutto davanti al crollo di un’opera meravigliosa come la Basilica di Norcia resterà sempre, ma sarà meno acuto se sapremo che la bellezza non è persa per sempre, che ce ne può essere altra, che siamo capaci di riprodurre ancora il senso di appagamento e sicurezza che ci dà una cosa bella, che sia un tempio, o una fabbrica, o una cascina, o un quartiere di edilizia popolare, o un edificio pubblico, che il tocco magico dell’essere italiani e sapere fare cose belle, oltreché utili, non lo abbiamo perso nelle nebbie del passato.