Messico, c’è lo sfruttamento delle giovanissime migranti guatemalteche che lavorano come domestiche
Virginia Negro 12.01.2019 |
Un flusso migratorio che dura da decenni.
Un importante flusso migratorio con una lunga tradizione nel confine meridionale del Messico è quello delle cosiddette lavoratrici domestiche, costituito da giovani e giovanissime donne provenienti soprattutto dal Guatemala, che lavorano nei principali centri urbani della regione. Secondo indagini sulla migrazione al confine sud (Emifsur), gestita dall’università Colef (Colegio de la Frontera Norte) sono circa 3000 le donne centroamericane che ogni anno migrano in Chiapas per lavorare in case altrui.
Moltissime minori dal Guatemala. Partono dal Guatemala cercando condizioni economiche migliori e il mercato messicano ha un’alta domanda di lavoro in questo settore. Attraversano il confine ed arrivano nelle case del lato messicano. Entrano nel mercato del lavoro in età molto precoce, il che aumenta gli abusi: ricevono gli stipendi più bassi della regione e hanno giornate lavorative che spesso superano di gran lunga le otto ore giornaliere. In uno studio condotto nella città di Tapachula, si è riscontrato che circa il 90% delle lavoratrici domestiche sono minorenni, e quasi la metà delle donne intervistate ha riferito che riceve qualche forma di abuso. Sono soprattutto indigene che si trovano in un ambiente alieno, la città, con poca o nulla rete sociale, ancor meno esperienza, il che le espone ad una situazione di maggiore vulnerabilità e condizioni di lavoro precarie.
Vivono dove lavorano soggette ad abusi e minacce. La maggior parte di loro vive nelle case dove lavora che può sembrare un vantaggio perché non ci sono ulteriori spese nel pagamento degli alloggi, ma in realtà questo meccanismo, appunto, è che consente la violazione dei loro diritti. Quasi nessuna gode di benefici sociali, sanitari e hanno stipendi molto bassi. Numerosi studi condotti da università, società civile, istituzioni governative e organizzazioni internazionali i datori di lavoro non incentivano che i dipendenti abbiano un regolare permesso di lavoro potendo cosi contare sulla minaccia della deportazione. Ad esempio, una lavoratrice domestica migrante intervistata per il report di ONU Women proveniente dal vicino comune di San Marcos in Guatemala, dopo essere entrata per lavorare illegalmente in Messico, si vede costretta a non avere nessun contatto con la sua famiglia d’origine: “Non posso tornare a casa e vedere i miei genitori: rischierei di non poter più rientrare”.
I tentativi di difesa dei loro diritti. Il Centro di Diritti Umani Frey Matias de Cordova, a Tapachula, descrive il processo di reclutamento di queste giovanissime donne. “Esiste un vero e proprio mercato in cui le ragazze vengono reclutate mentre aspettano nella piazza principale della città. Vengono letteralmente caricate e portate nelle case dei privati dove vivranno e lavoreranno”.
Il Centro si sta occupando da decine di anni di attendere questo fenomeno, incentivando le denunce e soprattutto l’organizzazione in sindacati, perché siano loro stesse a informare ed informarsi sui loro diritti e la possibilità di esercitarli. “E’ un mercato antico, una moderna schiavitù nella maggior parte dei casi, nel 2012 con l’appoggio dell’Unione Europea abbiamo creato uno sportello di orientamento legale e uno scambio di esperienza con altre lavoratrici domestiche e ad oggi continuiamo nella promozione della lotta per condizioni più giuste di lavoro e di vita”.
Dalla legge alla realizzazione dei diritti. Finalmente il Messico ha ratificato il convegno 189 della International Labor Organization, ILO, l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti umani con particolare riferimento a quelli riguardanti il lavoro in tutti i suoi aspetti. La Convenzione stabilisce una serie di norme minime del lavoro domestico: il diritto ad un contratto scritto e ad una retribuzione certa, nella quantità e nella modalità di pagamento; ad un orario di lavoro e riposi stabiliti; ad un ambiente sano e dignitoso in cui lavorare; al divieto del lavoro minorile; al diritto ad organizzarsi in un sindacato e a strumenti con cui accedere alla giustizia, quando necessario; a regole e condizioni certe per i migranti, tra cui il contratto scritto nella loro lingua, prima di lasciare il proprio Paese. Uno strumento per ridare dignità al “popolo invisibile” delle lavoratrici domestiche.