Figlicidi, una strage continua e silenziosa. Don Di Noto: “Bambini cancellati come un file”
22/02/2019 |
Dal 2000 si contano quasi 500 vittime, sono bambini maltrattati e ammazzati da genitori o familiari. A cui si aggiungono dati allarmanti su violenze e abusi.
L’ultima ha ventidue mesi, è ricoverata all’ospedale pediatrico “Bambino Gesù” di Roma ed è in lento miglioramento. Quando ci è arrivata, mercoledì scorso, da Genzano, era in fin di vita, per gli schiaffi e le percosse che le aveva scaricato addosso il compagno della madre. Lei è stata salvata, per altri bambini è stato impossibile. Giuseppe aveva sette anni. Alla fine di gennaio, a Cardito, periferia nord di Napoli, è stato picchiato a morte dall’uomo che conviveva con la mamma, “perché giocando aveva rotto la sponda del lettino nuovo”, ha raccontato l’uomo agli inquirenti. E, ancora, spostandosi indietro di qualche mese, le due gemelline di sei mesi uccise a dicembre dalla mamma che si è gettata nel Tevere tenendole tra le braccia e, a novembre, ad Aosta, i fratellini, di 7 e 9 anni, addormentati per sempre con un’iniezione letale dalla mamma infermiera, che subito dopo si è suicidata.
Sono i bambini maltrattati e ammazzati dai loro genitori o da familiari, vite finite ancora prima di cominciare, protagonisti loro malgrado di una strage continua, spesso consumata tra le mura domestiche, che in Italia, negli ultimi diciotto anni ha contato quasi cinquecento vittime – 447 dal 2000 al 2017, per la precisione, e il 2018 è ancora fuori dal computo.
Bambini che si ritrovano precipitati al centro di casi di cronaca agghiaccianti ogni volta accompagnati – foto sorridenti sui giornali, fiori e pupazzi lasciati da mani pietose sotto quella che spesso è stata la loro casa e il luogo in cui sono stati uccisi – da sdegno e riprovazione che durano il tempo di un servizio, qualche approfondimento, un passaggio, due, tre in televisione di chi quei piccoli e i loro assassini li conosceva bene, e poi, dopo la pubblicità e nei giorni a seguire più nulla, avanti con un’altra notizia magari più eclatante, certo più attuale. Il delitto di Cogne – il piccolo Samuele ucciso mentre dormiva nel suo letto da sua madre Anna Maria Franzoni – la triste fine del piccolo Loris – assassinato a Santa Croce Camerina a 8 anni e gettato in un fossato dalla mamma Veronica Panarello – storie che hanno segnato l’immaginario collettivo, sono considerati eventi eccezionali, fuori dall’ordinario.
E invece infanticidi, figlicidi, la violenza che ruba l’infanzia ai minori e arriva a ucciderli, nella maggior parte dei casi per mano di uno dei genitori o di un congiunto, appartengono alla quotidianità più di quanto si possa pensare.
I numeri, la strage continua. Stando ai dati forniti dall’Istat ad HuffPost, dal 2006 al 2017, in Italia sono stati uccisi 34 neonati – vittime del cosiddetto “infanticidio” – mentre dalle stime del Ministero dell’Interno risulta che negli ultimi due anni, gli omicidi volontari di cui sono stati vittime minori sono 36 – precisamente 21 nel 2017 e 15 nel 2018 – con un calo del 28,75 per cento. “Nel decennio compreso tra il 2004 e il 2014 i bambini uccisi dai genitori o in ambito familiare sono stati circa 245 – spiega all’HuffPost don Fortunato Di Noto, fondatore dell’associazione “Meter”, impegnata dal 1996 nella lotta alla pedofilia e la tutela dei diritti dei bambini in Italia e nel mondo. Il primo rapporto sul figlicidio pubblicato dall’Istituto di ricerca Eures nell’ottobre 2015 consegnava altri dati rilevanti: nei quindici anni compresi tra 2000 e 2014 sono stati 379 i figli uccisi da un genitore – padre o madre – naturale o acquisito. Annus horribilis il 2014, con 39 figlicidi, uno ogni 10 giorni, e un incremento sia rispetto ai 22 dell’anno precedente – 77,3 per cento – sia alla media, circa 25 ogni dodici mesi, del quindicennio considerato. Sempre da fonte Eures risulta che nei tre anni successivi, i figlicidi sono stati in totale 68 – nel dettaglio 18 nel 2015, 25 nel 2016 e 25 nel 2017. Quindi, dal 2000 al 2017 nel nostro Paese 447 bambini sono morti per mano dei genitori o familiari.
“I numeri di queste tragedie, che spesso si consumano nel silenzio, sono più alti di quel che si immagina – commenta la psicologa e psicoterapeuta Adriana Passarello, dal 2004 responsabile del centro di ascolto di “Meter” – c’è molto da fare, in termini di supporto ai genitori, di sostegno ai bambini esposti ad abusi e maltrattamenti e di sensibilizzazione alle segnalazioni e alle denunce”.
Dal dossier di Eures emergono pure altri due elementi, anch’essi attuali: sei figlicidi su dieci avvengono per mano della madre, i figli maschi sono le vittime prevalenti sia delle mamme che dei padri assassini. E torna la domanda, sempre la stessa: cosa scatta nella testa di un genitore per portarlo a compiere un atto tanto efferato, non a caso considerato e definito “contro natura”? Serve, per spiegare l’inspiegabile, la parola “raptus”? Tra i moventi figurano certamente patologie psichiatriche, sindrome di Medea, maltrattamenti o abusi, la conflittualità nei rapporti tra genitori e figli.
“La depressione post partum – spiega Passarello – che non colpisce tutte le donne e non va collegata in automatico all’infanticidio, porta al non accudimento del neonato. Con il giusto supporto e una rete familiare attenta e pronta, si può aiutare la neomamma a recuperare la genitorialità in tempi brevi”. Questione di formazione, di rapidità di intervento dentro e fuori casa, di servizi sociali.
“Bambini cancellati come un file”. Ma anche di valori, secondo don Di Noto, di attenzione da parte dello Stato alle esigenze dei più piccoli, che la politica ama definire “il futuro” salvo dimenticarne il presente. “Una comunità cristiana e civile non può tacere difronte al “bambinicidio” – fa notare il sacerdote – un termine che abbiamo utilizzato per indicare la strage dei bambini conosciuta solo quando la cronaca decide di renderla pubblica perché spesso relegata alla conflittualità genitoriale e alla soppressione del legame tra i coniugi qual è il figlio”… “Non esiste una banca dati su questo fenomeno, che deve interrogare le nostre coscienze di individui e cittadini”.
Accanto alla mancata accettazione del ruolo genitoriale, analizza il sacerdote, c’è una povertà relazionale “che non può essere riempita con il reddito di cittadinanza”, scandisce. Una povertà relazionale che riguarda anche chi non ha problemi economici – e infatti i figlicidi avvengono anche in contesti definiti “abbienti” – anche in questo mondo che corre e pare più abituato a guardare uno schermo che negli occhi qualcun altro, un mondo tarato sui parametri del 2.0, può sfociare, se non intercettata e adeguatamente supportata, alla cancellazione di un bambino “con la stessa facilità con cui si elimina un file”, sospira il fondatore dell’associazione “Meter”.
Povertà relazionale, insiste, sottoposta anch’essa “alla deriva della burocratizzazione”, che dovrebbe essere maggiormente tenuta in considerazione nei presidi territoriali. “Sanitari, visto che il figlicidio affonda le radici anche nei problemi di salute mentale – va avanti don Di Noto – ma non solo. Penso per esempio alla scuola, che, da agenzia valoriale, può offrire un grande contribuito pure su questo fronte”. Insomma, è anche questione di attenzione ai più piccoli, ai loro diritti. “Nel nostro Paese c’è ancora molto da fare – aggiunge – per questo vorrei rivolgere un appello alla politica perché si adoperi a comprendere le fragilità, che derivano anche dalla povertà e dalla marginalità di interi territori, la mancanza di inclusione di tanti bambini. Tagliare i fondi alla scuola, al sostegno, allo sport, alle famiglie non farà altro che aumentare il disagio”.
Le preoccupazioni e le raccomandazioni dell’Onu. Di recente il Comitato Onu per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ha pubblicato le osservazioni sull’attuazione della Convenzione di New York in Italia. Quattordici pagine, 43 paragrafi, nei quali il Comitato delle Nazioni Unite “ha manifestato preoccupazioni e ha raccomandato di adottare misure urgenti – si legge in una nota sul sito dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza – in particolare in tema distribuzione delle risorse finanziarie che tenga conto dei diritti dei minorenni più vulnerabili, non discriminazione delle persone di minore età sotto ogni aspetto, educazione e istruzione, minorenni migranti, rifugiati e richiedenti asilo”, tra le altre cose esortando l’Italia a “introdurre un sistema nazionale di raccolta dati in materia di violenza contro i minorenni”.
Tema, questo, collegato ai figlicidi e altrettanto attuale. I numeri degli atti sessuali perpetrati sui minori sollevano il velo su scenari infernali. Dai dati Istat risulta che dal 2006 al 2017 gli atti sessuali con minorenni denunciati dalle forze di polizia all’Autorità giudiziaria sono stati 6019. E gli abusi coinvolgono anche i neonati. “Sulla piattaforma pedopornografica tedesca che abbiamo fatto chiudere ultimamente – conferma don Di Noto – erano coinvolti sessanta neonati. Negli ultimi quindici anni abbiamo segnalato alle Procure e alla polizia postale oltre 30 milioni di materiali, tra immagini, foto e video che coinvolgevano bambini in età prepuberale di tutto il mondo, anche italiani. Io li definisco bambini orfani con genitori sì vivi ma nei quali è evidente la mancanza di accettazione del ruolo genitoriale”.
La strada da fare. Anche chi uccide il figlio in fondo non ha accettato il suo ruolo di genitore. I segnali si manifestano, “anche se coglierli non è facile – fa notare la psicologa – perché nella stragrande maggioranza dei casi legati a vissuti personali e episodi che si consumano nel chiuso delle case”. Come si fa allora? “Intervenire si può – risponde la psicoterapeuta – certo ci vorrebbero servizi sociali rafforzati, una figura specializzata che affianchi il pediatra di famiglia, ma, più in generale, bisogna adoperarsi per considerare i bambini non esclusivamente sulla base dei loro bisogni materiali”. Un cambio di ottica, dunque, “che renderebbe anche più facile sensibilizzare alla segnalazione di situazioni delicate. Capisco i timori, ma le denunce vanno fatte – conclude Passarello – se ci accorgiamo di bambini che subiscono violenze o maltrattamenti in famiglia, dobbiamo pensare che non sono figli degli altri e comportarci come fossero figli nostri”.