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L’indiano che rubava i cavalli ai nazisti

di Mariella Radaelli, treccani, 10 Maggio 2016.

Ha camminato in due mondi Joe
Medicine Crow,
quello della sua tribù, i Crow, e con forza mista
a saggezza nella terra dell’uomo bianco. Se ne è andato lo scorso
3 aprile alla veneranda età di 102 anni. Era l’ultimo
capo-guerriero dei Crow. 

Servì con onore l’esercito americano
durante la Seconda guerra mondiale guadagnando dalla sua gente nel
Montana lo status di ‘war-chief’, per aver superato nel teatro di
guerra europeo le quattro prove richieste: rubare un cavallo,
condurre con successo un combattimento, strappare l’arma al nemico,
toccare il nemico senza ucciderlo. 

Joe combatté corpo a corpo con un
giovane soldato tedesco al quale risparmiò la vita dopo averlo udito
piangere e invocare l’aiuto della madre. “Lo lasciai andare
immediatamente quando si mise a gridare ‘mamma, mamma’”,
dichiarò molte volte. 

Ricordava anche spesso di quella volta che
liberò un branco di cinquanta cavalli da una stalla delle SS. Ne
organizzò la fuga precipitosa cavalcando via su uno di essi mentre
cantava a squarciagola una canzone Crow.


Secondo lo storico Herman J. Viola,
curatore emerito del museo degli indiani americani allo Smithsonian
Institution di  Washington, il venerabile Joe era un “Tesoro
nazionale” poiché ultima memoria vivente della battaglia di Little
Bighorn. 

Era la testimonianza orale dei racconti fatti dal prozio White Man
Runs Him (L’Uomo Bianco Lo Gestisce) che gli narrava quel 25 giugno
1876 sin da bambino. 

L’Uomo Bianco Lo Gestisce fu uno dei sei scout
Crow
del generale George
Armstrong Custer
, capo delle truppe federali contro i Sioux e
Cheyenne. 

In quel suo nome c’era l’ammissione schietta di
collaborazione con l’uomo bianco nell’osteggiare insieme i loro
acerrimi nemici, i Sioux.

Joe Medicine era anche un autorevole
storico degli indiani
d’America
e il primo di loro a conseguire un master in
antropologia nel 1939. Nel suo libro autobiografico Counting
Coup
, del 2006, definiva “il
combattimento l’arte suprema, ma per noi indiani americani non si
riduceva nell’uccidere il nemico. Era soprattutto intelligenza,
leadership e onore”.
Vi è una lunga incredibile tradizione
di partecipazione dei nativi americani nelle fila dell’esercito
statunitense.  

Già nel 1778 il generale George
Washington
diceva a proposito degli indiani: “Credo che noi li
si possa utilizzare in modo eccellente, in qualità di scout e truppe
leggere”. 

E così è stato per tutti gli anni a venire fino
all’attualità, secondo una strategia militare vincente che però
non fa dimenticare le atrocità delle Guerre
indiane
, la vergogna nazionale del massacro di Sand Creek
ordinato in nome di Dio dal generale John Chivington contro i
Cheyenne quel 29 novembre 1864, e le tante altre brutalità fino al
massacro di Wounded Knee del 1890. Eppure già in occasione della
Guerra del 1812 molte tribù vennero coinvolte per aiutare l’uomo
bianco. 

In quel conflitto nato dalle tensioni commerciali tra il
giovane Stato statunitense e l’Impero britannico, i comandanti
americani avevano immediatamente colto negli indiani qualità di
coraggio, fortezza e spirito combattivo.
E pensare che “Il solo indiano buono
è un indiano morto” aveva risposto nel 1869 il generale Phil
Sheridan a un capo dei Comanches di nome T Toch-a way (Colomba)
quando a Fort Cobb, territorio indiano ora in Oklahoma, Tortora aveva
cercato di fare una buona impressione su Sheridan dicendo: “Io
Tortora sono un buon indiano”.


Gli indiani combatterono anche
nella Guerra
di secessione
americana come truppe ausiliarie a fianco di
entrambe le fazioni, nordisti e sudisti. 

Nella Guerra civile appunto,
svoltasi tra il 1861 e il 1865 tra gli stati del Nord e gli stati del
Sud, gli indiani avevano il ruolo di scout. 

Scrutavano il nemico,
raccoglievano informazioni e soprattutto padroneggiavano la terra. 

Erano spesso gli occhi e le orecchie dei soldati americani alle prese
con territori vastissimi e sconosciuti. I Pellirosse
vennero anche reclutati dai Rough Riders di Teddy Roosevelt. 

Assieme
al reggimento di cavalleria furono protagonisti a Cuba nella Guerra
ispano-americana del 1898, e si distinsero con azioni pronte ed
efficaci.
Nel 1916 accompagnarono invece la spedizione del
generale John J. Pershing  in Messico a caccia di Pancho
Villa
.
Agli inizi del Novecento avevano già
fornito un significativo contributo all’Esercito americano e
iniziavano ad esercitare all’interno di esso un ruolo sempre più
attivo e importante. 

In molti avevano mostrato tutta quella
inaspettata devozione ancor prima di ottenere la cittadinanza
americana, e l’imprescindibile diritto al voto che il Congresso
riconobbe loro solamente il  2 giugno 1924 attraverso l’Indian
Citizenship Act, anche se alcuni Stati continuarono a impedire loro
di votare fino al 1957.

Durante la Prima guerra mondiale oltre 12
mila indiani americani servirono l’Esercito. Molti si arruolarono
per soddisfare un senso d’avventura.
In molti allora non avevano
mai lasciato i confini del loro villaggio natale.
 

Il numero degli
indiani americani impegnati militarmente crebbe drasticamente durante
il Secondo conflitto mondiale: si arrivò a 44mila uomini tra il 1941
e il 1945 e su entrambe i teatri di guerra, Europa e
Pacifico.
Incredibile fu il ruolo dei ‘code talkers’ Navajo,
gli eroici speaker Navajo che trasmettevano messaggi via telefono e
radio nella loro lingua indigena, creando un codice oscuro,
indecifrabile per i giapponesi che mai riuscirono a decodificare.
Gli eroi navajo presero parte a ogni
assalto dei Marines nel Pacifico dal 1942 al 1945. 

Servirono in tutte
le sei divisioni Marines.

In realtà l’idea di proporre un
codice amerindiano per le comunicazioni di guerra venne da Philip
Johnston, figlio di un missionario protestante che aveva trascorso
molti anni tra i Navajo. Johnston parlava la loro lingua e
combattendo durante la Prima guerra mondiale aveva notato l’uso di
un linguaggio in codice basato sulla lingua dei Choctaw, tribù del
Sud degli Stati Uniti.
 

La lingua Navajo, sintatticamente complessa
e tonale, era ciò di cui si aveva bisogno in contesto di guerra. Risultava assolutamente incomprensibile al nemico.
Johnston fece
alcune prove. Attraverso la simulazione di un combattimento dimostrò
che i Navajo erano in grado di trasmettere in venti secondi un
messaggio equivalente nella lingua inglese a una lunghezza di tre
righe e che le apparecchiature dell’epoca avrebbero impiegato non
meno di trenta minuti a diffondere. 

Johnson convinse quindi il
generale Vogel, comandante del corpo dei Marines, a reclutare 200
Navajo.
Nel maggio 1942, i primi 29 reclutati
crearono il codice segreto, radunati a Camp Pendleton, Oceanside,
California. Svilupparono un minidizionario terminologico militare
moderno, con un gergo  non in uso nella loro lingua.

Solo
qualche esempio: “besh- lo” (pesce di ferro) significava
“sottomarino”, “dah-he- tih-hi” (colibrì) “aereo
da combattimento” e “debeh-li-zine” (strada nera)
“pattuglia”.
I giapponesi rimasero spiazzati di fronte a
questo prontuario rompicapo senza simboli né alfabeto. 

Il capo
dell’intelligence, il generale Seizo Arisue, ammise la loro
incapacità di decifrare il codice dei Marines.
I code talkers
Navajo vennero onorati al Pentagono il 27 settembre 1992 con la
medaglia onore del Congresso.
“Ho avuto tanti incubi pensando al
sangue, ai giapponesi e all’odore di morte. Giapponesi marcescenti
mi entravano nella testa”. 

Sono i ricordi lucidissimi carichi di sofferenza di un veterano
indiano americano.



Barack Obama awarding chief
Joseph Medicine Crow REX/Shutterstock



Le truppe esperte amerindie della
seconda Guerra mondiale si aggiunsero alle nuove truppe reclutate
appositamente per combattere l’aggressione comunista durante la
Guerra di Corea. “C’era un cameratismo nell’aeronautica che
trascendeva le differenze tra le varie etnie quando si serve la
propria patria oltreoceano in tempi di guerra”, dichiarò tempo fa
il senatore Ben ‘Nighthorse’ Campbell, uomo politico nello Stato
del Colorado nonché veterano Cheyenne della Guerra di Corea.


Il
patriottismo e il comprovato spirito combattivo spiccarono di nuovo
negli anni cruenti del Vietnam. Furono impegnati in questo conflitto
brutale oltre 42mila indiani di cui oltre il 90 per cento erano
volontari.
Sono guerrieri nati, soldati per natura, gli indiani
d’America.
“Hanno l’entusiasmo per il combattimento: è questo il
vero segreto che rende l’indiano d’America un soldato di così
alto profilo”, aveva dichiarato già nel lontano 1912 il capo di
Stato maggiore dell’esercito statunitense.
Le ragioni dietro
queste adesioni all’esperienza bellica sono profondamente radicate
nella loro cultura, dove forza, onore, orgoglio, devozione e saggezza
costituiscono una sorta di formula magica dell’arte militare. 

Gli indiani hanno sempre
vissuto l’esperienza dell’esercito probabilmente come possibilità
di avventura, opportunità educativa di futuro migliore per l’intera
famiglia e occasione di sviluppo della forza interiore, valore
spirituale nelle loro società.
Negli anni Ottanta e Novanta hanno
prestato servizio in tutte le divisioni, laddove fosse auspicabile
esserci, a Grenada, Panama, in Somalia, nella Prima guerra del Golfo. 

Nel nuovo millennio, molti si sono affrettati
a rispondere alla chiamata destinazione Iraq e Afghanistan, dove il
conto delle vite tra soldati e civili si è quasi perso. 

Diversi indiani americani sono tornati a
casa feriti nel corpo, nel cuore, nella mente, in balia della famosa
sindrome post traumatica da stress, diagnosticata per la prima volta
ai veterani del Vietnam e che colpisce solitamente dal 20 al 40 per
cento dei sopravissuti. 

Un centinaio di soldati
amerindiani sono morti, sui suoli iracheni e afghani, come il
sergente Navajo Marshall Westbrook, il guerriero Cherokee Joshua
Wheeler, il soldato Cheyenne Sheldon Hawk Eagle, il Comanche Joshua
Ware, il Navajo Lee Duane Tadacheene, e la lista è lunga.


Ma la morte è uno strumento del ciclo
vitale per gli indiani, è la montagna dove la conoscenza culmina e
dalla quale parte subito un nuovo inizio, come canta questa preghiera
Navajo per i morti: “La casa è d’alba/ la storia è fatta
d’alba/sul cammino d’alba/ Oh Dio che ci parli/ I suoi piedi, i
miei piedi, riposa/le sue membra, le mie membra, lenisci/le sue
piume, le mie piume, ricrea”.


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