La violenza delle donne sugli uomini? Esiste, e nessuno la racconta meglio di Artemisa
17 Dicembre 2016
È vero che le donne sono violente solo per reazione alla violenza maschile? O esiste una violenza “di genere” tutta femminile? Per capirlo non bisogna guardare le cronache o il gossip, ma la mostra della Gentileschi
«Geppi Cucciari, le accuse dell’ex marito: “è crudele, mi tortura”». Ieri, questo titolo del Corriere della Sera, ci invogliava alla lettura, solleticando la speranza di venire edotti su sevizie e atroci pene corporali perpetrate dalla pestifera Geppi ai danni del suo non più consorte. Nel pezzo, però, si scopre solo che lei sarebbe dotata di “satanica e spietata crudeltà” e che avrebbe trafugato libri, foto di famiglia, quadri e arredi del di lui padre, evidentemente a titolo di dispetto (i dispetti possono essere diabolici, ma non hanno nulla a che fare con la violenza psicologica, bisognerebbe obiettare all’ex signor Cucciari).
Niente botte. Niente lividi. Niente sangue. Che delusione (si può ammettere?). Se ci fosse stato il sangue, probabilmente, avremmo sorriso e, forse, anche riso. Perché alla violenza femminile sono spesso riservate, più o meno nascostamente, un’accondiscendenza e una solidarietà. A volte, persino un colorito plauso.
Il femminismo maschile tanto in voga negli ultimi tempi (ricordare sempre Natalia Aspesi: “quando un uomo si dice femminista, su le mutande e scappare) scolpisce le donne come esseri massimamente fraterni, buoni, disponibili con il prossimo e in definitiva migliori degli uomini, ma l’idea già serpeggiava, da anni, nella lettura semplicistica e socio-antropologica dell’assenza delle donne dalle guerre. In più, la violenza femminile, pur non avendo mancato di macchiare abbondantemente la storia di sangue, è sempre stata una vendetta. Ed è naturale stare dalla parte dei vendicatori, soprattutto dentro una storia fatta di abusi e sopraffazioni così numerosi e costanti che, a un certo punto, s’è voluto dare un sesso alla violenza e, ovviamente, un sesso anche alle sue ragioni.
Quella maschile l’abbiamo voluta atavica, innata, ma tuttavia addomesticabile, mentre quella femminile l’abbiamo voluta contronatura e, quindi, di reazione. Per questa ragione, probabilmente, esiste una giornata internazionale contro la violenza sulle donne ma non una contro la violenza sugli uomini: crediamo, forse, che annientando la prima, la seconda non avrà più ragion d’essere. Non interroghiamo il fascino che le sanguinarie esercitano su di noi, credendolo risolto in quello di un’eroica ribellione, di un legittimo ripristino della giustizia.
“Sono diventata così, adulta, seria, controllata, triste, perché pensavo che la vita si fondasse su una specie di patto: segui il canone e sarai al sicuro. Non era vero, eppure sono stata imbrogliata. Tra le cose di cui devo vendicarmi, c’è anche questa”, scrive Flavia Perina nel suo Le lupe, uscito per Baldini&Castoldi. È un libro che dovrebbe vincere lo Strega, non per il riconoscimento in sé, ma perché dovrebbero leggerlo moltissimi italiani.
Parla Flaminia, la madre di un ragazzo ucciso dai poliziotti in un giorno esagitato di scontri allo stadio. Un ragazzo che, però, è completamente innocente: non è neppure un tifoso. Flaminia è una donna che non reagisce in modo molto diverso da come la televisione ci ha convinti che si reagisca alla perdita di un figlio e, in modo assai lucido, pianifica la sua vendetta. Prima di farlo, però, si sforza di capire quale donna è diventata e a quale punto sia della sua vita: ne deduce il dovere di una reazione che le servirà a fare giustizia per suo figlio e pure per sé stessa. Il paradigma, allora, non è solo quello della violenza come reazione, né tantomeno quello della donna-vittima. Flaminia si accorge che l’assassinio di suo figlio ha risvegliato qualcosa che, per anni, aveva scelto di imborghesire, sedandolo: un istinto. Una forza preesistente che non è in antitesi affatto con la materna dolcezza che le fa pensare “i giovani sono pochi, così pochi che non dovrebbero morire mai” e che sente il bisogno di indagare e mettere alla prova. All’amica che l’aiuterà a rintracciare il colpevole della morte di suo figlio, non perdonerà mai di (attenzione, spoiler) “averle tolto per sempre la possibilità di sapere se sarebbe stata capace di sparare, oppure no”.
Il 30 novembre, a Palazzo Braschi (Roma) è stata inaugurata una mostra splendida, Artemisia e il suo tempo, dedicata ad Artemisia Gentileschi, la prima italiana ad essere ammessa all’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze. Era il 1616. Cinque anni prima, era stata violentata da Agostino Tassi, pittore amante fuori misura di donne e sensualità (La notte tu mi fai impazzire è il libro di Pietrangelo Buttafuoco che lo racconta al meglio): l’episodio segnò la sua vita, quindi la sua arte, per sempre.
Artemisia, nella mostra a Palazzo Braschi si vede assai bene, riprodusse il piacere della vendetta. Dopo lo stupro, la sua vita si offuscò, ma il suo sguardo divenne formidabile e profondo e altissimo. Controverso, persino. Dalle eroine sanguinarie della Bibbia (Giuditta che decapita Oloferne, Giaele che prende a martellate Sisara) o dalle donne che si ammazzano un attimo prima di essere immortalate come vittime (a Cleopatra, dedicò più di una tela) o che sanno portare il peso dell’incomprensione dei loro errori e delle loro successive metamorfosi (Maria Maddalena), Artemisia, dice la storia, era attratta perché dipingerle le offriva un riscatto. Così, dipingere Giuditta era, per lei, come decapitare Agostino? Forse.
Ma la voce dei suoi quadri racconta una storia più complessa. Non è alla vittima di uno stupro che Artemisia voleva che facessero pensare i suoi quadri, bensì alla minaccia che la grazia femminile nasconde ma non annulla. Una minaccia che è arma e promessa. Artemisia, forse, voleva mostrarci che le donne non sono migliori, ma possono essere cattive, terribili. Temibili.
Due anni fa, David Fincher portò al cinema Gone Girl, la storia di un’assassina che approfitta del suo status di donna per nascondere ogni sua nefandezza. Piovvero critiche di maschilismo.
Uno dei libri di questo 2016 è Le ragazze, di Emma Cline (Einaudi), che racconta le storie delle adepte di Charles Manson, nel nome del quale ciascuna di loro commise atroci omicidi. Questo nuovo interesse per le ragazze violente è la ricerca di un tarlo innato e quindi un ennesimo tentativo di parificazione (anche le donne sanno uccidere) o un corteggiamento del desiderio che abbiamo di immedesimarci in qualcosa che, tuttavia, aborriamo?
Di certo, le tele di Artemisia irrobustiscono e allertano molto più dei seminari sul femminicidio, dove mai ci verrà suggerito di chiederci perché Medea è un’icona e, invece, il Conte Ugolino un abominio.