Weeda Ahmad, la memoria delle vite stroncate in Afghanistan
18 Dicembre 2016
Lotta da quasi dieci anni per ottenere memoria e giustizia per le vittime e i dispersi in quarant’anni di soprusi. Ecco il suo archivio
“SENZA giustizia in Afghanistan non i sarà mai pace”. Weeda Ahmad lotta da quasi dieci anni per ottenere memoria e giustizia per le vittime e i dispersi in quarant’anni di soprusi in Afghanistan. Nata a Kabul 33 anni fa, la seconda di tre sorelle, dopo aver trascorso gli anni del regime afgano filosovietico in un campo profughi pachistano perché il padre era stato incarcerato due volte per il suo impegno per diritti umani e la democrazia, è tornata in Afghanistan con l’avvento dei Taliban al potere. È stato nel 2007, quando alla periferia della capitale è stata scoperta una fossa comune, che ha fondato la Social Association of Afghan Justice Seekers (Saajs, Associazione sociale degli afgani che cercano giustizia). Da allora ha raccolto in un archivio oltre 8mila storie con foto delle vittime di crimini dagli anni Settanta a oggi. “La gente chiede che fine abbiano fatto suo padre, figlio o fratello. I morti e gli scomparsi sono migliaia. I responsabili si avvicendano: il governo filorusso, i mujaheddin, i Taliban, gli invasori statunitensi, in tempi recenti l’Isis. Ma il copione degli abusi è sempre lo stesso”, ci ha raccontato durante la sua recente visita in Italia al fianco della onlus Cospe (www.cospe.org) che a Kabul ha aperto due case protette per le donne vittime di violenza (e che fino a oggi è possibile sostenere partecipando alla campagna “Vite preziose” con un sms al numero solidale 45526).
Ha documentato migliaia di storie. Ce n’è qualcuna che le è rimasta particolarmente impressa?
“Gli abusi hanno portato a una grande diffusione di disordini mentali in Afghanistan. Ricordo una donna in particolare. Nella provincia di Bamiyan, i Taliban hanno ucciso 365 uomini in un solo giorno. Un ragazzo quindicenne li sfidò dicendo: ‘Non uccidete mio padre, ma me’. La madre è quasi impazzita. Non parla quasi più e nega che il figlio sia stato ucciso. Inventa storie di viaggi pur di negarne l’uccisione. E poi mi viene in mente un ragazzo. La madre e la sorella sono state uccise nel raid statunitense su Shah Shaheed, alla periferia di Kabul. Da allora non è più tornato a casa sua perché, seppur sia stato rimosso, sulle pareti e sul pavimento vede ancora il sangue della madre e della sorella”.
Cosa spera di ottenere documentando queste storie?
“Pace e giustizia. Non è facile in Afghanistan dove al governo siedono i criminali. Quando la Commissione indipendente sui diritti umani ha documentato le atrocità commesse dai Taliban sui civili, il governo ha votato un’amnistia. Tutti i criminali nominati nel rapporto sedevano nel governo e quindi di fatto si sono autograziati. Io lavoro perché i criminali vadano in prigione e perché ci sia un governo democratico. L’80% della gente vuole pace, giustizia, democrazia. Lotto per loro”.
Che cosa pensa della recente decisione della Corte penale internazionale dell’Aja di indagare i crimini commessi da forze sicurezza, militari statunitensi e Taliban dal 2003?
“I Paesi Bassi stanno cercando in tutti i modi di non diventare un rifugio per criminali di guerra. Nel 2005 una corte olandese condannò due ex ufficiali dei servizi afgani KhAd accusati di tortura che si erano rifugiati lì. Indagando su di loro nel 2013 la procura olandese ha pubblicato una lista di 5mila persone uccise che erano scomparse alla fine degli Anni Settanta. È grazie a questa lista che molti afgani hanno potuto finalmente celebrare il funerale per i loro cari. L’apertura di un’inchiesta internazionale è ovviamente una buona notizia, ma finché i responsabili dei crimini saranno al governo in Afghanistan c’è poca speranza che vengano processati”.
Tra gli obiettivi dell’associazione Saajs c’è anche la richiesta di rinominare i palazzi e le strade intitolati ai criminali. Mi può fare qualche esempio??”
Al ministro degli Esteri Salahuddin Rabani, ex Taliban e figlio del signore della guerra che fu anche presidente dell’Afghanistan, è intitolata l’area dove vennero uccisi centinaia di studenti sotto il regime di suo padre. Siamo riusciti a ottenere che una piazza nei pressi della prigione di Kabul dove sono state torturate e uccise migliaia di persone fosse intitolata alle vittime, ma nei pressi campeggia una targa in nome dell’ex presidente filosovietico Mohammad Najibullah, uno dei responsabili di quelle torture. Ogni strada principale o piazza viene intitolata a un criminale. Di più, quando uno di loro muore, il giorno della loro morte diventa festa nazionale. In questo modo si continuano a torturare familiari e vittime”.
Ha mai subito minacce?
“Ricevo telefonate minatorie o insulti per strada. Mi dicono: ‘Sei una donna musulmana, dovresti stare a casa invece di parlare di crimini’. Il governo spesso nega il permesso alle nostre richieste di manifestazioni. Mi hanno pure chiesto che dal nome dell’associazione venga rimossa la parola ‘giustizia’. Una volta sono intervenuta in tv al fianco di un mullah. A telecamere spente, il mullah ha iniziato a insultarmi e ha provato a colpirmi con una bottiglia piena d’acqua. Io, per tutta risposta, ho imbracciato la mia scarpa (ride)”.
Che cosa pensa dei colloqui di pace tra governo e Taliban?
“I fondamentalisti non vogliono la pace, vogliono amnistia, soldi, posti di lavoro, ruoli di governo. Ma se in un Paese non c’è giustizia, non ci sarà mai pace. Perché se nessuno paga, ci saranno sempre criminali al governo. I prossimi colloqui di pace li faremo con l’Isis”.