Poesia del giorno. Jiří Orten
Settima elegia
Vi scrivo Kàrina, e non so se siete viva,
se già non siete dove non c’è desiderio,
se intanto non è finita la vostra precaria età.
Siete morta? Chiedete dunque alla vostra pietra
di farsi lieve. Chiedete alle rose, signora,
di richiudersi in boccio. Chiedete al disintegrarsi
di leggervi la lettera del mio disgregamento.
La morte tace al cospetto dei versi, nei quali vengo a voi,
giovane cosí crudelmente e appena sul maturare,
che nella mia giovinezza a un re mi fa somigliare
d’un perduto reame. Ma voi lo sapevate
quanto a noi di ali manca per volare come angeli,
come ridiamo col sangue come col sangue piangiamo.
La mia caduta ho trovato. E voglio dirvi su cosa.
Sul cielo una volta (questo io scrivo di Dio)
la trasparenza si ferí di un rosso
e sanguinava, si dileguò, tramontava.
Forse era solo un sogno, nel quale sognavo
madre e padre, la casa, entrambi i miei fratelli,
forse era solo un sogno, nel quale un uomo scorga
se stesso sotto i cerchi d’acqua d’uno stagno,
forse era un sogno, specchio della luna,
ma non doveva apparirmi, se poi non mi fossi svegliato,
non doveva lasciarmi nel fuoco che abbrividiva!
La caduta di Dio! E poi resta solo il ragazzo,
senza la forza beata che sa abbassare
l’altezza degli ostacoli, ridurre la lontananza,
e l’inferno sbarrare con le viole, con la fragranza.
Poi resta solo il ragazzo e si sveglia e va
a una realtà di mali. Pensa di non trovare.
Il tempo non guarisce, se non vuole. Il tempo è un ciarlatano.
Su una donna, una volta, in ogni sua parte amorosa,
la caduta parve un non-cadere: ciò scrivo di Narcisa.
Tutto era lieve. E inesprimibilmente vicina
a noi parlò la gioia. Era un accento
che mai si potrà dissolvere in un vento,
era una lingua, la cara lingua materna
di labbra, mani, occhi, corpi e del grembo amato,
da cui sopra un letto si china la splendida sicurezza,
era una lingua che parla senza lingua.
Che voleva Narcisa, quando davanti ai suoi specchi
stava e si raggelava da lei ogni cosa toccata?
Come Narciso, sua ombra, lei nient’altro voleva
che vedere se stessa senz’anima, senza corpo,
nel trasparente specchio, cercava solo parole
di beltà di durezza, piú dure del diamante,
bramava di se stessa sapere in sogni estranei.
Non fu come sorgente, ma da sorgente annegata!
Ah, dove scaturisce ciò che qua ci fa scorrere?
Di chi le notti insonni su me si sono tanto
posate e dilatate che piú non c’è spazio?
La mia caduta ho trovato. Su che cosa? Sul pianto!
Cadevano mie lacrime. Cadevano nelle paludi,
cadevano per un regno di miserie e di dolori,
cadevano senza pudore, Kàrina, scrivo a voi,
domandate alla pietra, che lavo con la pioggia,
mi sento come pioggia, che piove sul vostro sepolcro,
mi sento come un pianto, senza tempo né forma,
vi scrivo, Kàrina, e non so se siete viva,
se già non siete dove non c’è desiderio,
se intanto non è finita la vostra precaria età.
Conosco una bambina. È come un bacio che ancora
si cela nella bocca, non deve passare piú oltre,
si distende soltanto a un sole che è tenue,
che non brucia, che disseta: su un seno ci fa addormentare.
È giovane come la terra, lieve come il respiro,
come le prime foglie, come il mattino e la gioia.
Anch’io conosco bei giorni. Ma dove ci porteranno?
Voi l’avete provato? E lo sapete, Kàrina?
So anche la grandezza di donne: aspettare di madre
se mai ritorni a lei un triste figlio.
So anche la mia terra, letizie senza ragione.
E so la fedeltà, ma ignoro dove sia adesso.
So i risvegli improvvisi da strazi, da non-speranze –
ma sapere è ben poco, ma ben poco è volere,
sapere il tradimento, quando il perdono è impossibile.
La morte tace al cospetto dei versi, ecco, ne sogno ancora.
A quale tempesta si tace? A quale cosa tremenda?
Che cosa laggiú capiremo? Che cosa non si disgrega?
Che cosa anche là muore? Che cosa là cade in eterno?
Gli amori? –
Non volevo, non volevo non tacere,
perdonate a Narcisa, perdonate la colpa e il mondo,
cosí, col cero acceso, pregate per la terra
che troppo non la prostri il dicembre col suo gelo,
che le sia dato un aprile di fiori,
che sia per lei bandiera in vetta a una torre la notte,
che sventoli alla luce, quando è l’ora delle stelle,
che gli amanti la lodino per il dolore.
Giovane cosí crudelmente e appena sul maturare,
rido da sanguinare e piango lacrime di sangue
e da Dio abbandonato e Dio abbandonato vi scrivo,
Kàrina, e non so se sono vivo…