Un ritorno al passato: il “nuovo” piano del Viminale su immigrazione e asilo
30 Gennaio 2017
E’ davvero un ritorno all’antico il nuovo piano di misure sull’immigrazione e l’asilo, annunciato dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, di concerto col capo della Polizia, Franco Gabrielli: tutte all’insegna del più puro spirito repressivo e sicuritario; tutte volte ad accelerare la macchina dei rastrellamenti e delle espulsioni, non importa quanti e quali diritti fondamentali si violino. Lo scopo asserito è la moltiplicazione del numero di espulsioni dalle attuali cinquemila a diecimila, con l’ambizione di arrivare addirittura a ventimila, nonché l’incremento dei rimpatri forzati tramite nuovi accordi bilaterali con paesi di provenienza.
Questo scopo, a sua volta, è dichiarato come funzionale a combattere il terrorismo jihadista: come se esso non fosse anzitutto, per citare Alain Bertho, “una mortifera espressione contemporanea” della rabbia sociale e della rivolta, che la sola logica poliziesca e militare di sicuro non riuscirà ad annientare. Tuttavia, una finalità complementare del piano Minniti sembra essere quella di compiacere gli umori popolari più malsani, con l’illusoria aspettativa di sottrarre terreno alla destra dichiarata: è la strategia consueta dei “riformisti” allorché sono al governo.
Il piano evoca persino un passato assai infelice, se è vero che, tra l’altro, prevede che i richiedenti-asilo svolgano lavoro gratuito – a vantaggio non solo di enti locali, ma anche di aziende private –, in attesa che le commissioni si pronuncino sulla loro domanda. Per quanto definito con l’eufemismo di “lavoro socialmente utile”, esso sarà, di fatto, una sorta di lavoro forzato, essendo concepito come uno dei requisiti per ottenere lo status di rifugiato.
Il che equivarrebbe a sovvertire la Convenzione di Ginevra e il diritto internazionale. L’asilo è, infatti, un diritto soggettivo che non può essere subordinato a imposizioni o ricatti. Non per caso v’è l’obbligo di esaminare le richieste caso per caso, tenendo conto delle storie individuali e della forma di persecuzione subita personalmente. Se a ciò si aggiunge la prevista abolizione del grado di appello per i richiedenti-asilo – la cui domanda sia stata respinta dalla commissione ad hoc, nonché da un giudice, in caso di ricorso –, ci si rende conto di come s’intenda fare carta straccia d’un tal diritto fondamentale.
Un’altra grave misura prevista è quella della moltiplicazione dei Cie (Centri d’identificazione ed espulsione), su cui conviene soffermarci più a lungo. Anche perché lo stesso ministro dell’Interno, almeno fino alla sua conferenza-stampa del 5 gennaio scorso a Palazzo Chigi, sembrava non aver le idee chiare sulla loro vera natura.
C’illudevamo che i Cie avessero fatto il loro tempo e fossero destinati a una progressiva scomparsa, se non altro perché risultati enormemente costosi e inefficaci rispetto alla stessa finalità per cui sono stati istituiti: rendere effettivi i provvedimenti di allontanamento coattivo di persone immigrate prive del permesso di soggiorno. E, invece, dai quattro attuali si passerà ad almeno venti, estesi in tutte le regioni, tranne che in Molise e Valle d’Aosta. Per indorare la pillola, Minniti promette che saranno di dimensioni ridotte (di cento posti al massimo), che gli “ospiti” saranno tutelati da un’autorità garante del rispetto dei diritti umani, che saranno riservati ai migranti irregolari i quali siano anche “pericolosi socialmente”. In modo più crudo, Gabrielli dichiara che, sebbene siano già abitualmente presidiati dalle forze dell’ordine, egli non esclude l’uso dell’esercito.
Questi dettagli (alcuni piuttosto inquietanti) non sono destinati a intaccare, se mai a rafforzare la natura intrinseca della detenzione amministrativa: istituto extra ordinem, non foss’altro perché, in palese violazione della Costituzione italiana, in particolare dell’art. 13, fa del “trattenimento” uno strumento ordinario e non convalidato dall’autorità giudiziaria. In tal modo si priva della libertà personale una speciale categoria di persone, gli stranieri non comunitari, e non già per aver essi commesso un reato punibile con la reclusione.
In realtà, come nel 2014 rilevò, fra gli altri, il Rapporto sui centri d’identificazione ed espulsione della Commissione diritti umani del Senato, nei Cie non vengono rinchiusi solo gli stranieri “pericolosi”, come sostiene una certa retorica istituzionale e mediatica. Vi finiscono, invece, le più varie categorie di “stranieri/e”: potenziali richiedenti-asilo; giovani nati in Italia da genitori immigrati; persone residenti legalmente da lungo tempo, che, perso il lavoro, hanno perduto anche il permesso di soggiorno; ex-detenuti che, pur scontata la condanna fino all’ultimo minuto, sono sottoposti alla doppia pena; perfino cittadini comunitari o minorenni rastrellati nel corso di indiscriminate operazioni poliziesche: le stesse preannunciate da Gabrielli e probabilmente già in corso. Può accadere che una donna tunisina, Nabruka Mimuni, residente in Italia da più di vent’anni col marito e un figlio, sia fermata dalla polizia mentre è in coda per rinnovare il permesso di soggiorno, sia condotta nel Cie di Ponte Galeria e si tolga la vita la notte tra il 5 e il 6 maggio 2009, poche ore prima del suo rimpatrio coatto.
Oltre a quello citato, nel corso degli anni è stata prodotta una gran mole di rapporti e d’inchieste sui Cie per opera sia di associazioni fra le più importanti, sia di istituzioni, anche europee: tutti accomunati da giudizi severi nei confronti di una tale anomalia giuridica e delle violazioni di diritti fondamentali che essa comporta. Ricordiamo che a condannarli come veri e propri centri di detenzione, lesivi della dignità umana, sono state anche una parte del mondo giuridico nonché la stessa Corte europea.
Secondo le contingenze politiche, nel corso del tempo i centri di detenzione hanno cambiato nome, mutando anche la durata del “trattenimento”: dai trenta giorni massimi iniziali si è arrivati, nel 2011, fino ai diciotto mesi. Com’è ben noto, queste anomale strutture detentive furono istituite dalla legge detta Turco-Napolitano (l. 40 del 6 marzo 1998) e previste dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione (TU 286/1998), col nome di Cpta (poi abbreviato in Cpt): cioè Centri di accoglienza temporanea e assistenza, designazione che cercava di celarne goffamente la vera natura dietro un ossimoro eufemistico. Nel 2008, col quarto governo Berlusconi, che di certo non aveva remore semantiche, assunsero il nome attuale, del tutto esplicito. Oggi, ancora un cambiamento: si chiameranno Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). Un nuovo ossimoro, ma, questa volta, niente affatto edulcorato: forse a comunicarci che i due fanno proprio sul serio.
In realtà, già a pochi mesi dall’istituzione di questi mostri giuridici – che saranno a lungo e tuttora chiamati da media, anche mainstream, “centri di accoglienza” – se ne sperimentò la natura intrinsecamente perversa e funesta, perfino in senso letterale. Il 1° agosto 1998 Abdeleh Saber morì nel carcere di Agrigento, dove era stato tradotto dopo una rivolta nel Cpt di Lampedusa: qui gli avevano somministrato una dose eccessiva di psicofarmaci. Ugualmente imbottito di psicofarmaci, Mohamed Ben Said morì la notte di Natale del 1999 nel Cpt di Ponte Galeria (Roma). La mandibola fratturata, forse a causa del trattamento ricevuto in carcere, per giorni e giorni aveva reclamato cure mediche mai ricevute. Sposato con una cittadina italiana, quindi inespellibile, Mohamed non avrebbe dovuto essere internato in quel lager.
Quattro giorni dopo, la notte fra il 28 e il 29 dicembre, a Trapani, all’interno del Cpt “Serraino Vulpitta”, dopo un tentativo di fuga duramente represso dalle forze dell’ordine, dodici migranti furono rinchiusi in una cella la cui porta fu bloccata dall’esterno con una sbarra. Per protesta, uno di loro diede fuoco ai materassi. Così all’interno scoppiò un incendio, ma nessuno intervenne per tempo ad aprire. Nel rogo perirono subito, bruciati vivi, tre giovani tunisini. Altri due sarebbero morti pochi giorni dopo in ospedale; il sesto avrebbe cessato di vivere dopo due mesi e mezzo di agonia. La strage è rimasta impunita, così come i due precedenti omicidi colposi.
Presidiati militarmente dalle forze dell’ordine, spesso protetti da più ordini di sbarre (com’è nel caso di quello di Ponte Galeria) così da apparire foschi e blindati più di un carcere, i Cie sono amministrati, delle volte, con un’affettata parvenza di rispetto dei diritti umani, dietro cui spesso si celano ogni genere di brutalità e sistemi di gestione alquanto opachi. Vi dominano le più varie forme di arbitrio, maltrattamenti, precarie condizioni igieniche, pestaggi delle forze dell’ordine, cui seguono rivolte e atti di autolesionismo: ricordate le proteste “delle bocche cucite”? Per non dire dei suicidi e tentativi di suicidio nonché delle morti per carenza di cure mediche oppure per omissione di soccorso: così morì la notte tra il 18 e il 19 marzo 2009 Salah Soudani nel Cie di Ponte Galeria. Il loro carattere di eccezione permanente è illustrato dal costante ricorso – più che in carcere – alla pratica di somministrare agli internati, spesso a loro insaputa, psicofarmaci e neurolettici.
Sappiamo bene quale sia l’aria che spira oggi. La presidenza Trump, con le sue nuove “leggi razziali”, non farà che legittimare l’Europa-fortezza e alimentare razzismo e islamofobia: il recente attacco terroristico nella moschea di Quebec City ne rappresenta il tragico salto di qualità. Eppure, perfino a noi, che da decenni combattiamo contro i mulini a vento, fa una certa impressione constatare che non una parola sia stata spesa dal Viminale a proposito di ciò che potremmo cominciare a chiamare genocidio: nel 2016 sono state almeno 5.800 le vittime della tragica traversata verso l’Europa, equivalenti a più del 77% dei morti di migrazione su scala planetaria.