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🌐 WOMEN’S STORIES _ Rachel Corrie

Di
Michele Giorgio, Nena News, 17 mar 2018

Gaza nell’abisso non dimentica Rachel Corrie. L’attivista
americana fu travolta e uccisa il 16 marzo del 2003 mentre a Rafah tentava di
impedire la demolizione di una casa palestinese da parte di una ruspa militare
israeliana
Gaza – Il prossimo 10 aprile Rachel Corrie avrebbe festeggiato
il 39esimo compleanno, magari proprio ad Olympia, la cittadina nello Stato di
Washington dove era cresciuta e aveva studiato. E forse avrebbe continuato il
suo attivismo a favore della pace e la giustizia che da giovane l’aveva portata
ad unirsi all’International Solidarity Movement per sostenere i diritti dei
palestinesi. La vita di Rachel, ragazza poco appariscente e riservata, invece è
finita il 16 marzo del 2003, ad appena 24 anni, sotto i cingoli di una ruspa
corazzata dell’esercito israeliano mentre tentava di impedire la demolizione di
un’abitazione palestinese a Rafah, nella Striscia di Gaza. Ieri i genitori e la
fondazione che porta il suo nome hanno ricordato il suo impegno. Commemorazioni
si sono svolte anche a Gaza dove tra un mese sarà ricordato Vittorio Arrigoni,
a sei anni dalla sua brutale uccisione.
Tante
cose, e tutte in peggio, sono cambiate a Gaza rispetto a quel gennaio del 2003
quando la giovane americana partì per raggiungere Rafah. Era mesi terribili,
con l’esercito israeliano impegnato a demolire centinaia di case lungo il
confine tra Gaza e l’Egitto durante la seconda Intifada palestinese. Morte,
sangue e distruzioni erano all’ordine del giorno ma nulla lasciava presagire
che qualche anno dopo Gaza sarebbe diventata di fatto una prigione a cielo
aperto, controllata da Israele e dall’Egitto, in cui ora vivono richiusi oltre
due milioni di palestinesi. Anche in quelle fasi tragiche pochi potevano
immaginare tre grandi offensive militari israeliane contro Gaza in appena otto
anni – 2008, 2012, 2014 – che hanno ucciso migliaia di palestinesi e, ancora di
più, che la Striscia sarebbe diventata il terreno di scontro tra i due
principali movimenti palestinesi, Fatah e Hamas.
Rachel
Corrie davanti a una ruspa militare israeliana
Rachel
non si considerava solo uno “scudo umano”. Più di tutto voleva documentare gli
spari su civili, le distruzioni deliberate di infrastrutture e gli abusi di
ogni tipo. E scriveva tanto, per tenere informata la famiglia, i suoi amici,
altri attivisti su ciò che vedeva ogni giorno e anche per raccontare le sue
emozioni e il senso di impotenza davanti agli eventi. La morte arrivò il 16
marzo. Assieme ad altri sei attivisti dell’Ism si era schierata davanti ai
bullodozer israeliani pronti ad avanzare e a spianare alcune case palestinesi,
inclusa quella di un suo amico. Indossava un giubbetto fluorescente. Come aveva
fatto altre volte salì su di un mucchio di terra accatastata da una ruspa
facendosi vedere dall’operatore della macchina per spingerlo a fermarsi. Ad un
certo punto cadde, non si è mai saputo se a causa della pressione sulla terra
fatta dal bulldozer. Finì sono i cingoli. Testimoni raccontarono che dopo
averla coperta di terra il mezzo militare le passò sopra una seconda volta. Nei
mesi successivi l’esercito israeliano addossò ogni responsabilità a Rachel e
agli altri dimostranti. Il tribunale di Haifa ha poi sentenziato che il
conducente del bulldozer non vide l’americana «che sarebbe dovuta restare
lontana dalla zona pericolosa» e che la sua morte fu «il risultato di un
incidente che lei stessa aveva attirato su di sé». Una versione smentita con
forza dai compagni della giovane attivista.

A dare
giustizia a Rachel Corrie è stata la società civile globale, elevandola a
simbolo della resistenza non violenta e della lotta per la giustizia. I suoi
diari sono diventati un testo teatrale “My name is Rachel Corrie”, curato
dall’attore e regista britannico Alan Rickman e rappresentato ancora oggi in
tutto il mondo.