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Un genocidio silenzioso in Bolivia: il guerriero dell’acqua di Cochabamba, Oscar Olivera, colpito dal coronavirus

Raúl Zibechi 14/07/2020
Cochabamba, Bolivia. Il virus dilaga, la gente muore respinta sulle porte degli ospedali al collasso, le bare restano abbandonate nelle strade anche per una settimana. È storia di questi giorni, anche se qui ricorda un passato che sembra remoto. Il sistema dei media divora i fatti, li digerisce e li rimuove. Perfino qui, figuriamoci in Bolivia, un paese che non esiste, come ebbe a dire brillantemente la regina Vittoria. Noi non la pensiamo così.

Tradotto da Marco Calabria
Quando a un uomo che ha lottato per tutta la vita si rompe la voce, vuol dire che sta succedendo qualcosa di grave. Conviene ascoltare con il cuore e restare in silenzio, scrive Raúl Zibechi in un “pezzo” difficile, e lascia parlare quasi sempre Oscar. Sentire la malattia sulla tua stessa carne, ti fa vedere il mondo da un’altra prospettiva. Qualcosa di non molto diverso, dev’essere accaduto allo stesso Zibechi, e lo stesso capita a noi, a differenza della regina infuriata, da questa stessa parte dell’oceano. Oscar Olivera è un fratello “di sangue”, per Raúl e per noi, da quasi vent’anni. Da quando, cioè, la sua gente, a Cochabamba, s’è rifiutata di pagare anche l’acqua che pioveva dal cielo, come pretendevano la Bechtel, il governo e la Banca Mondiale. La multinazionale è stata costretta a lasciare la città e l’acqua è tornata senza padroni.
È stata la prima grande rivolta (vincente) contro il liberismo di questo millennio. Da allora, ogni volta che abbiamo incontrato Oscar, in Bolivia e spesso in Italia, lo abbiamo sentito parte della nostra storia. La parte migliore, perché le sue idee, ma soprattutto il rifiuto assolutamente naturale di sentirsi un grande leader, un vincitore di prestigiosi premi internazionali, restano una testimonianza impareggiabile di allergia al potere e alle gerarchie del comando, una dimensione etica del far politica ormai quasi estinta. Il rigore assoluto con cui Oscar ha scelto di non fare il ministro o il capo di una forza politica per confondersi, per rendersi quasi invisibile tra la gente – si trattasse di scavare una cisterna comunitaria o di coltivare verdure con i bambini delle scuole – è un grande insegnamento per chiunque nel mondo sia ancora così pazzo da impegnarsi nel cimento di provare a cambiare il mondo.
Qui abbiamo vissuto quel che Oscar racconta, una sorta di Bergamo boliviana. Ci sono però, va detto, almeno un paio di differenze sostanziali: la prima è che, malgrado le decine di miliardi tagliati, il sistema sanitario pubblico italiano non è paragonabile a quello della Bolivia. La seconda, più tremenda, è che nella città che ha vinto la “guerra dell’acqua” oggi, mentre l’epidemia dilaga, l’acqua non c’è. Un paradosso feroce, che indica come perfino le vittorie più celebrate (così come le rivoluzioni) non siano eterne, possono solo essere difese lottando, con alterne fortune, nella vita quotidiana. Abbiamo scritto a Oscar, naturalmente. Lo dice lui: la sola cosa che ci resta è la solidarietà tra i compagni. Ci ha risposto così: Venceremos (…), y nos daremos un abrazo prolongado de cariño y esperanza! Su queste nostre paginette web, l’abbiamo scritto spesso: la speranza è la vita che si difende. Grazie, Oscar, per avercelo ricordato anche stavolta.-MC
Oscar Olivera, il più noto protagonista della storica guerra dell’acqua di Cochabamba, ex operaio in una fabbrica di scarpe e dirigente sindacale, ha il coronavirus. Quando ha avuto un malore ha provato ad andare in ospedale ma è stato invitato a rivolgersi altrove perché l’ospedale pubblico non era più in grado di prendersi cura di nessuno. Dopo sei ore, nell’altro centro ospedaliero, ha avuto il risultato delle analisi: positivo al Covid. Non hanno potuto ricoverarlo perché neanche lì c’erano letti disponibili. Adesso Oscar è a casa sua, in un quartiere di Cochabamba, con la famiglia. Al telefono (Zibechi scrive da Montevideo, ndr) ci dice che sta bene, non ha sintomi, ma si sente molto afflitto dalla situazione che c’è nella città.
Ci sono famiglie che devono tenere in casa fino a sette giorni i propri morti perché nessuno passa a raccoglierli e nessuno li seppellisce, racconta. Non funzionano i servizi elementari della salute, né quelli di emergenza né quelli dell’igiene urbana. In alcuni casi, i familiari lasciano le bare per la strada, perché anche i cimiteri sono al collasso. Impotenza, rabbia e solitudine sono le sensazioni che dominano in buona parte dei 600 mila abitanti della città.
“La sola cosa che ci rimane è la solidarietà dei compagni“, dice Oscar, la voce rotta dal dolore. “Ho chiamato alcuni di loro per dire che ho il virus ma sto bene e alcuni mi hanno detto lo avevano già avuto ma non l’avevano detto per non deprimere le loro famiglie e gli amici. Raccontarci quel che succede è un bene, invece, ci fa risollevare l’animo…”.