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Bergamo: riflessioni dal centro della tempesta perfetta

Marco Noris 20/05/2020
Nel balletto delle cifre sapremo mai il reale numero dei morti causati dal Covid-19? Difficile da stabilire.

Possiamo, però dare qualche dato relativo, cercare di paragonare le situazioni. L’Italia appare la nazione al mondo più colpita dal virus, la Lombardia che conta circa 1/6 della popolazione del Paese detiene il triste primato del numero dei morti: più o meno la metà di tutti i morti d’Italia. All’interno di questa regione, la provincia di Bergamo detiene il record di decessi, circa la metà di tutti i decessi regionali per Covid-19.
Insomma, la Bergamasca, una provincia di circa 1.100.000 abitanti, ha pressappoco gli stessi morti della Germania che di abitanti ne ha oltre 83.000.000. Non esistono particolari predisposizioni al contagio da parte dei Bergamaschi rispetto al resto del mondo, né le caratteristiche genetiche dei Bergamaschi sono poi così diverse rispetto a quelle degli altri abitanti del Paese o dell’Europa. Quindi le spiegazioni dovranno essere ricercate altrove e forse varrebbe la pena iniziare a fare almeno alcune congetture. Questa ricerca, ovviamente, non può essere esaustiva, sarà lunga e laboriosa né si potrà ridurre alla ricerca di una sola causa: sicuramente per la Bergamasca hanno influito diversi fattori ma sarà altresì importante capire se e come questi diversi fattori siano indipendenti tra loro e la loro contemporanea concomitanza sia il frutto del fato, oppure, come vuole la probabilità, tali fattori non siano tra di loro concatenati e interdipendenti.
Per cercare di orientarsi nel dedalo delle congetture e della notizie è bene fare ordine e procedere per punti.
Le Mosche del Capitale
In un libro ormai quasi dimenticato della fine degli anni 80, “Le Mosche del Capitale”, Paolo Volponi narrava della decadenza morale del capitalismo italiano e dei suoi attori principali esprimendo un giudizio inappellabile di condanna. Il neoliberismo secondo Volponi realizza un contrasto patologico tra l’estrema modernità ed eleganza delle sue apparenze, nel design e nell’architettura che ne caratterizzano i centri – oggi diremmo la forma stessa nella quale intendiamo i processi di gentrificazione – e l’arcaica violenza dei suoi rapporti sociali. Possiamo parlare di mosche del capitale anche nella Bergamasca?
Se dobbiamo proprio entrare ancor più nel dettaglio del disastro orobico una menzione speciale spetta alla Val Seriana e anche in questo caso la risposta a qualche perché è d’obbligo.
Qualcuno ha ribattezzato la Val Seriana la valle del tessile. In effetti è il settore trainante della valle sin dal ‘600, quando divenne sistematica la coltura del gelso ai fini della produzione della materia prima per tutto il ramo tessile. Di seguito l’industrializzazione fece il resto fino alla fine del secolo scorso punteggiando il panorama del fondovalle con innumerevoli capannoni. All’inizio del nuovo millennio la battuta d’arresto per un settore industriale sostanzialmente maturo che aveva saputo resistere e sopravvivere alla concorrenza internazionale, soprattutto dei cosiddetti paesi emergenti come la Cina, non certo grazie alla libera concorrenza bensì al più tradizionale e vecchio protezionismo. L’Accordo Multifibre aveva regolato il commercio internazionale dei prodotti tessili e dell’abbigliamento attraverso l’imposizione di restrizioni quantitative di prodotti tessili che i cosiddetti Paesi in via di sviluppo potevano esportare verso i cosiddetti paesi sviluppati: un modo, appunto pratico, per ritardare lo sviluppo dei primi. Fu introdotto nel 1974 e nelle intenzioni originarie sarebbe dovuto durare in prima battuta un decennio per consentire ai paesi sviluppati di prepararsi alla gestione delle importazioni provenienti da quelli emergenti. Alla fine si concluse solo nel gennaio del 2005.
È una data che segna uno spartiacque per il settore tessile nella Bergamasca. Le aziende che hanno pensato fino all’ultimo di sopravvivere ai cambiamenti limitandosi a maledire i concorrenti cinesi chiudono. Chi ha avuto uno sguardo più lungo, invece, i cinesi se li fa amici, ci collabora e apre persino sedi in Cina. In realtà la Bergamasca sviluppa dei rapporti sempre crescenti con la Cina: prima della crisi l’interscambio con la Cina superava il miliardo di euro. In ogni caso, il settore tessile, attualmente nella Bergamasca conta un centinaio di aziende, oltre un quarto di queste presenti nella sola Val Seriana.
Come sappiamo, di Coronavirus in Cina si parla da mesi, l’avviso dell’epidemia risale almeno alla fine dello scorso anno. Con incredibile costanza la collaborazione e lo scambio di tecnici continua indisturbato per molti mesi soprattutto nel settore tessile. A questo punto serve fare ordine con alcune date. Agli inizi di febbraio c’è lo stop dei voli da e per la Cina. Confindustria lancia subito l’allarme in merito alle ripercussioni del blocco nel settore tessile. Il 5 di febbraio, per tranquillizzare un po’ tutti, il Sole 24 ore pubblica un articolo dal titolo significativo: “Coronavirus, stop voli per Cina, ma è ancora possibile arrivarci: ecco come e quanto costa”. Un articolo molto utile per tutti quei tecnici e lavoratori delle aziende della valle che continuano a fare i pendolari con l’Oriente, e i risultati si vedono presto. Il resto è cronaca ricostruita in dettaglio da tanti giornalisti tra i quali spicca per impegno e contenuti Francesca Nava.
Il 21 febbraio abbiamo il primo focolaio a Codogno e soli due giorni dopo all’ospedale di Alzano Lombardo, il più importante ospedale della Valle Seriana, abbiamo i primi due casi accertati. L’ospedale viene momentaneamente chiuso, per poi riaprire, inspiegabilmente, alcune ore dopo, senza che ci sia stato nessun intervento di sanificazione. Il 25 febbraio è la data della lettera del direttore dell’ospedale Giuseppe Marzulli alla direzione sanitaria di competenza nella quale affermava che in quelle condizioni l’ospedale non avrebbe potuto rimanere aperto. La risposta a dei timori più che fondati sta nello slogan #‎bergamoisrunning e nel messaggio tranquillizzante che il presidente di Confindustria della Bergamasca lancia il 29 febbraio a tutti i clienti esteri, affermando il basso rischio di infezioni e confidando nelle sicure misure di prevenzione messe in atto. Da lì in avanti la strage è storia che continua ancora in queste settimane, che colpisce duramente soprattutto Alzano Lombardo e il confinante Nembro. È pressoché impossibile trovare in questi paesi una famiglia che non sia stata toccata. Il contagio poi dilaga anche in città, sarebbe ingeneroso parlare solo del settore tessile. Anche quando il virus si diffonde e la strage diventa difficilmente negabile, le imprese bergamasche fanno di tutto per non chiudere diventando, probabilmente, il principale veicolo di contagio per tutta la provincia ma a questo punto entrano in gioco anche altri attori e fattori da considerare.
I lacchè del Capitale
La classe imprenditoriale bergamasca da sola non può certo decidere se o cosa chiudere. Questa constatazione è banale, ma nella testa di molti non appare proprio immediata. La catena di comando che avrebbe potuto fare altrimenti è un’altra e va ricordato molto bene. Ormai è tristemente famoso lo scambio avvenuto il 22 febbraio tra il direttore dell’Agenzia regionale emergenza urgenza (AREU) di Bergamo, Angelo Giupponi, e l’assessore al Welfare della Regione Lombardia Gallera: Giupponi sottolineava “l’urgente necessità di allestire degli ospedali esclusivamente riservati a ricoverati per Covid-19, così da evitare promiscuità con altri pazienti e quindi diffusione del virus nelle strutture ospedaliere”. Giupponi ricorda poi la risposta di Gallera: “Non dormiamo da tre giorni, non abbiamo voglia di leggere le tue cazzate”. C’è tutta una catena di comando che va dall’Azienda Socio Sanitaria Territoriale (ASST) di Bergamo est fino alla Regione Lombardia che non ha voluto ascoltare e attivarsi per fermare il contagio.
La realtà è che l’intero sistema politico lombardo si è dimostrato subalterno alle decisioni della classe imprenditoriale che era contraria a qualsiasi tipo di chiusura e, nello specifico, non aveva la minima intenzione di sopportare una zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro così come era stata istituita pochi giorni prima a Codogno. In un’intervista rilasciata a Francesca Nava, Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia afferma: “Con la Regione ci siamo confrontati. Per fortuna non abbiamo fermato le attività essenziali, altrimenti i morti sarebbero aumentati”, e continuando nei panni di autoproclamato esperto di epidemiologia aggiunge: “Perché così tanti decessi qui? Ci sono molti allevamenti, la movimentazione degli animali ha favorito il contagio”
Confindustria Lombarda considera però le fabbriche un luogo sicuro in generale e ciò che rimane aperto è ben più delle attività essenziali: a fine marzo in Lombardia si contano attive oltre 450.000 imprese su un totale di 800.000, molte non hanno chiuso neppure un giorno, nella Bergamasca il territorio leader del contagio e dei decessi da Covid-19, sono aperte oltre il 40% delle imprese.
La realtà della sicurezza nelle fabbriche è ben diversa da quanto affermato dal presidente di Confindustria: alto è il numero dei lavoratori finiti in terapia intensiva, operai deceduti, e giovani precari ricattabili costretti a lavorare o prestare volontariato nelle filiere più pericolose senza alcuna protezione efficacie o con una sola mascherina disponibile per diverse settimane.
Al di là del disgustoso balletto politico tra governo e Regione Lombardia sulle responsabilità della mancata chiusura e istituzione della zona rossa, c’è da sottolineare come la Regione Lombardia si sia distinta non solo per la sua totale subalternità ai voleri e alle decisioni della classe imprenditoriale ma anche per la sua totale incapacità e incompetenza nella gestione della crisi. La Regione Lombardia ha dato responsabilità al governo per la mancata attuazione della zona rossa dimenticando di avere autonomamente l’autorità per istituirla che le deriva dalla legge 833 del 1978; mentre si lagnava con il governo per questo fatto, Campania, Lazio e Calabria avevano già provveduto a istituire in piena autonomia le zone rosse necessarie. Sempre la Regione centralizza l’ordine di 4 milioni di mascherine e dei DPI ad un soggetto privato, Aria Spa, ordine mai andato a buon fine perché l’azienda si è rivelata semplicemente inesistente; delibera l’8 marzo di chiedere alle ATS, le aziende territoriali della sanità, di individuare nelle case di riposo dedicate agli anziani le strutture autonome per assistere pazienti Covid 19 a bassa intensità, che è come chiedere a chi fa un pieno di benzina di provare ad inserire un cerino acceso nel serbatoio per vedere se si spegne.
Ci sarebbero decine e decine di episodi assurdi e oltre il ridicolo da raccontare in merito alle decisioni prese dalla Regione Lombardia e che sono facilmente reperibili dalla cronaca. Questa manifesta incapacità gestionale e incompetenza non sono però semplicemente ridicole perché corresponsabili di migliaia di morti. È significativo che una petizione lanciata a favore del commissariamento della sanità lombarda abbia già raccolto, nel momento in cui si scrive questo articolo, oltre 78.000 firme. L’impressione, per molti, è che la Regione Lombardia vada fermata prima che provochi ulteriori danni; ormai, per molti, la coppia Fontana – Gallera non sarebbe degna di ricevere l’incarico neppure di amministratore di condominio.
Una prima riflessione di carattere generale che emerge da queste considerazioni sembra suggerire una relazione inversa tra il dominio del capitale da un lato e competenze e capacità gestionali delle istituzioni a lui subalterne. Le inconsistenti figure politiche di Fontana e Gallera fanno da contraltare al potere economico della regione più ricca e industrializzata d’Italia. Sono personaggi che esistono solo in quanto funzionali esecutori di quel potere e nulla più, sono pezzi di un ingranaggio totalmente intercambiabili senza una reale autonomia. Se vogliamo, però, soffermarci maggiormente su Bergamo dobbiamo riferirci anche ad altre istituzioni locali e ad un rapporto specifico che queste hanno con la struttura economica provinciale.
Vale la pena descrivere per sommi capi la geografia dell’economia bergamasca. Come accaduto per molte realtà territoriali del nord Italia anche Bergamo ha subìto una fase di decentramento dei settori produttivi che dalla città si sono spostati dal capoluogo ai comuni esterni, non solo dell’area periurbana. I settori, oltre al tessile già citato, variano da quello alimentare al metalmeccanico, una miriade di piccole e medie aziende insieme ad alcuni grandi soggetti di rilevanza mondiale, uno per tutti l’Italcementi S.p.A., quinta azienda mondiale per la produzione di materiali da costruzioni. L’agricoltura ha un ruolo secondario mentre nel capoluogo e in tutta l’area metropolitana prevale il settore terziario. E’ proprio a partire da queste caratteristiche e, in particolare, dal capoluogo e dal suo sviluppo che si possono comprendere alcune dinamiche legate alle vicende degli ultimi mesi.
A fine febbraio, quando la pandemia aveva già imboccato la strada del disastro del mese successivo, a Bergamo come a Milano i rispettivi sindaci, Gori e Sala, tranquillizzavano e si facevano fotografare a cene e aperitivi nei locali pubblici. Come se non bastasse il sindaco di Bergamo autorizza l’Azienda Trasporti Bergamo (ATB) all’emissione del biglietto giornaliero per il week end, di modo che tutti siano facilitati nell’andare a fare spese in centro. I mezzi pubblici stracolmi che hanno portato dalla provincia alla città migliaia di persone sono stati probabilmente un veicolo di contagio importante per il capoluogo. Insomma, in perfetto stile bipartisan la gestione disastrosa della Regione Lombardia da parte del centrodestra è stata implicitamente sostenuta dall’atteggiamento tranquillizzante in stile “Milano da bere”, in ritardo quasi di 40 anni, da parte del centrosinistra e, per quanto riguarda il capoluogo bergamasco, questo risponde ad un’esatta esigenza degli interessi del settore turistico.
L’idea di sviluppo della città che soggiace a questo approccio coinvolge anche altri interessi economici a partire da quelli del commercio, dell’edilizia e dell’intero settore immobiliare. E comunque il settore turistico bergamasco è in forte espansione, soprattutto nel capoluogo. È però un’espansione tipica dei fenomeni di gentrificazione che caratterizzano ormai molte città europee e centri storici. La diffusione incontrollata degli affitti brevi, dei B&B, i cambiamenti socio-culturali conseguenti dell’area urbana, il sostanziale mutamento di una città che tende ad espellere nelle periferie le classi meno abbienti, si accompagnano ad un’idea dello sviluppo del territorio in perfetta sintonia con l’espansione del traffico dell’aeroporto cittadino. L’aeroporto di Orio al Serio non è solo un elemento estremamente importante nello sviluppo della gentrificazione del capoluogo e per il suo impatto devastante in termini ambientali ma anche un fattore che non si può dimenticare se vogliamo capire quanto accaduto a Bergamo negli ultimi mesi.
A fronte di una popolazione provinciale di circa un milione e centomila abitanti, Bergamo ha il terzo aeroporto nazionale: esattamente pochi mesi fa, nel dicembre del 2019 ci furono grandi festeggiamenti per il superamento della soglia di 13 milioni di passeggeri annui. È abbastanza evidente che, in questo caso, gli interessi del capitale da tutelare nell’area urbana di Bergamo sono soprattutto quelli legati a questo modello di sviluppo che pone, anche in questo caso, problemi di ordine democratico: la trasformazione della città, il suo sviluppo economico e turistico diventano dipendenti da una realtà aeroportuale e in buona sostanza da una precisa compagnia aerea, la Ryanair che, a fine aprile, si è dichiarata disposta a chiudere i battenti avendo cancellato tra il 90 e il 95% dei propri voli.
C’è però un ultimo tassello da inserire per spiegare il disastro bergamasco. Il rapporto insano tra istituzioni e capitale ha prodotto i suoi effetti già da molto tempo, soprattutto in Lombardia.
Le vittime del Capitale
La sanità lombarda è sempre stata spacciata per un fiore all’occhiello della Regione Lombardia; oggi, finalmente, quel fiore appare per quello che è: magari di plastica e per giunta tossica.
In linea generale il disastro italiano della sanità pubblica lo si comprende in pochi dati: un taglio di 37 miliardi di euro in 10 anni, 70.000 posti letto in meno, 359 reparti chiusi. Insomma, nel 1980 avevamo 922 posti letto per casi acuti ogni 100.000 abitanti, oggi solo 275. Prima della pandemia si contavano solo 5.000 posti di terapia intensiva in tutto il Paese, contro i 20.000 della Francia e i 28.000 della Germania (che in poche settimane li ha portati addirittura a 40.000) ma anche Paesi economicamente meno ricchi del nostro possono vantare performance migliori: in Argentina, ad esempio, pare che i posti in terapia intensiva siano almeno 9.000. Il disastro è sotto gli occhi di tutti, difficile negarlo ma in Lombardia si è riusciti a fare ancora peggio.
In Lombardia sono stati chiusi ospedali a decine nonostante le proteste dei cittadini. Ovviamente, nonostante la pandemia la regione non ha la minima intenzione di riaprirli, perché a quel punto non solo dovrebbe ammettere l’errore compiuto, ma avrebbe molte difficoltà a richiuderli in un momento successivo. La caratteristica che però salta all’occhio della sanità lombarda è il lungo processo di continua privatizzazione che oggi ha superato la soglia del 40%, dai tempi di Formigoni e dei suoi amici.
Ora, in queste settimane infuria il dibattito, e i difensori della sanità privata, affermano che è stata comunque impegnata nel far fronte all’emergenza (e ci mancherebbe altro con tutti il denaro pubblico che ha ricevuto). Quello che manca alla discussione è però un approccio sistemico alla questione che sottolinei la sostanziale incompatibilità tra privato e il concetto di salute pubblica.
Esistono differenze strutturali tra l’interesse privato e la tutela della salute, per tutti sufficientemente comprensibili, che hanno conseguenze facilmente rilevabili. In primo luogo è interesse delle strutture private fare profitto sulla cura, insomma, il privato ha interesse che la gente si ammali. Al contrario la cura della malattia è per la sanità pubblica una spesa per cui l’interesse è quello che si ammali meno gente possibile. In secondo luogo il settore privato non investe in settori che hanno bassi margini di profitto come i pronto soccorso o i reparti di terapia intensiva al contrario della sanità pubblica. A fronte di tali considerazioni e anche a prescindere dalla deriva privatistica che comunque ha coinvolto anche la sanità pubblica, le differenze pratiche di questo approccio si manifestano sulla pelle dei pazienti soprattutto a monte e a valle del processo di cura: a monte con la riduzione sistematica della rete di medicina preventiva, se la gente non si ammala non si fa profitto; a valle con tutta una modalità di sviluppo precisa di una sanità che ha privilegiato i settori con maggior profitto, dalla chirurgia specialistica alla gestione delle malattie croniche, disinvestendo però in pronto soccorso e terapia intensiva.
Fino a pochi anni fa in Lombardia la maggior parte delle strutture sanitarie era dotata di reparti di emergenza, mentre nel settore privato questi settori sono presenti in molto meno della metà delle strutture.
In sintesi il Covid-19 ha trovato in Lombardia un terreno molto fertile per esprimersi al peggio grazie anche alla privatizzazione della sanità.
I risultati di questo stato di cose nella Bergamasca sono, alla luce della particolare gravità della situazione, evidenti e sotto gli occhi di tutti: i morti in casa non ricoverati e non riconosciuti come vittime da Covid-19 sono migliaia; e una menzione particolare spetta ai medici e agli infermieri che si sono sacrificati in questi mesi. La retorica nazional popolare li ha definiti angeli ed eroi per il loro lavoro e spirito di sacrificio, ma si è guardata bene da dare loro spazio quando hanno denunciato le cose che non sono andate per il verso giusto. Non si è dato spazio, ad esempio, alle migliaia di lettere firmate e indirizzate all’associazione avvocatura degli infermieri nelle quali si lamenta lo stato di abbandono, di emarginazione, della carenza dei DPI fondamentali, a partire dalle mascherine; si lamenta la cooptazione di infermieri dai servizi estranei alla degenza per poi gettarli, senza alcuna formazione e screening, nei reparti ad alto rischio infettivo e senza dotarli delle più elementari presidi di sicurezza, magari dotandoli di una sola mascherina alla settimana. Gli angeli e gli eroi in questione che provano a denunciare tali situazioni diventano di colpo persone da minacciare, anche attraverso il ricatto del licenziamento e se si ammalano possono usufruire della semplice malattia: le aziende, in questo modo, non risponderanno del danno differenziale da infortunio colposo. Tutto questo accade tanto nella sanità privata quanto in quella pubblica, nella quale si paga lo scotto di decenni di tagli negli investimenti e, in particolare, nel personale.
Si potrebbe continuare ancora a lungo ma è abbastanza evidente che, in questo senso, la sanità è la vittima illustre delle due tipologie di attori che abbiamo precedentemente presentato.
Bergamo: non solo centro della tempesta perfetta
Difficile imputare solamente a queste spiegazioni il triste record mondiale della Bergamasca: sicuramente ci sono anche tante altre variabili da tenere in considerazione molte delle quali oggi sfuggono all’analisi. Altrettanto difficile, però, è pensare al raggiungimento dello stesso record senza considerate tutto quanto abbiamo finora esposto: l’irresponsabilità imprenditoriale e politica e gli effetti conseguenti nel settore sanitario sono comunque concausa di centinaia se non migliaia di morti nella sola Bergamasca. Il dramma di Bergamo non può essere comunque disgiunto da scelte imprenditoriali e da un’idea di sviluppo e di gestione del territorio specifiche che altrove non si sono realizzate, perlomeno in quella misura.
In questo senso Bergamo può essere considerato il centro della tempesta perfetta che si è abbattuta sul Paese, in particolare, sulla sua regione più ricca e industrializzata e questo può iniziare a dirci qualcosa. Covid-19 non è frutto di una punizione divina o un semplice accidente della storia. Al di là di tutte le deleterie teorie complottiste questo virus era, in una certa misura, atteso: già nel periodo 2002-2004 l’epidemia di SARS-CoV interessò una trentina di nazioni, buona parte delle quali concentrate nel quadrante del sud-est asiatico. Il virus arrivò però anche in Canada e negli Stati Uniti e interessò in misura molto contenuta anche alcune nazioni europee. Furono censiti tra gli 8 mila e i 10 mila casi con poco meno di 800 decessi. In maniera concorde, già allora, gli scienziati furono unanimi nello stabilire che l’avessimo scampata bella. Vale la pena di ricordare che, allora, fu un medico italiano di Medici Senza Frontiere (già, proprio un medico di quelle tanto infamate ONG), Carlo Urbani, ad individuare il virus e lanciare l’allarme all’OMS. Purtroppo lui stesso pagò con la vita il suo impegno: il virus lo uccise a Bangkok nel marzo del 2003. Ci furono successivamente altri ceppi virali di notevole rilevanza in Oriente: se qualcuno si chiede del perché in molti paesi asiatici sia ormai da anni abitudine da parte di molti di circolare per la strada in mascherina, ora ciò dovrebbe essere più chiaro. Anche a fronte di tali sviluppi la rivista Foreign Affair nel 2005 pubblicò un articolo che prevedeva una pandemia come quella attuale. Insomma basta con i complottismi: un virus come il Covid-19 era abbondantemente prevedibile e, purtroppo, non è detto che sarà l’unico che dovremo affrontare in futuro.
Allo stesso modo, però, questa pandemia non può assolutamente considerarsi avulsa dall’organizzazione capitalistica del sistema produttivo, della circolazione e distribuzione delle merci e degli stili di vita e si inserisce a pieno titolo nella questione del rapporto perverso tra natura e società. È appena il caso di ricordare che la ricerca del cosiddetto ospite intermedio che ha consentito il salto di specie dal pipistrello all’uomo si sta concentrando sugli allevamenti intensivi del bestiame, settore già sottovalutato per il suo impatto ambientale ma da solo responsabile della produzione del 18% dei gas serra a livello planetario sia in termini di protossido di azoto che di metano. Se la correlazione venisse dimostrata non saremmo di fronte semplicemente ad una produzione inquinante bensì al processo responsabile della mutazione e diffusione accelerata del virus su scala planetaria. Inoltre, è stata recentemente dimostrata la correlazione tra polveri sottili, il PM10 e Covid-19: la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) ha accertato la presenza di RNA virale del Coronavirus sul particolato atmosferico aumentando la persistenza del virus nell’atmosfera e accelerandone così la diffusione. È appena il caso di sottolineare che quelle stesse poveri sottili sono la causa dell’incremento delle patologie cardiovascolari e respiratorie che hanno reso ancora più letale il Covid-19. Diffusione e accelerazione sono i tratti tipici del modello organizzativo del capitalismo.
Purtroppo insieme a queste caratteristiche ce n’è un’altra che ha effetti molto pratici e devastanti connessa al senso del tempo e del futuro. Corollario del processo di accelerazione è quello della vita confinata nell’eterno presente, nel vantaggio a breve, nel profitto immediato. Se vogliamo tornare a Bergamo, l’atteggiamento degli imprenditori che non avrebbero mai voluto chiudere e che scalpitano per riaprire è l’atteggiamento di coloro che non solo antepongono gli interessi del profitto alla vita umana (è di questi giorni la notizia che laddove sono rimasti aperte le realtà aziendali seppur autorizzate il contagio è superiore nella misura del 25%), ma anche quello che non si pone una progettualità futura nemmeno nel medio periodo. Se all’apertura generalizzata seguirà una recrudescenza del contagio, difficilmente non si ritornerà al lockdown e ad una nuova chiusura: è l’atteggiamento di chi non solo preferisce l’uovo oggi ma non vede neppure la gallina domani. Questa cultura caratterizzante l’intera organizzazione capitalistica però pone una domanda di carattere più sistemico: se l’atteggiamento di fronte all’emergenza immediata della pandemia è questo, come si può sperare che questi stessi attori possano affrontare o anche solo considerare l’idea di una riconversione ecologica in grado di garantire il futuro del pianeta? E per quanto riguarda coloro che abbiamo definito i loro lacchè, come possiamo immaginare una classe politica lungimirante, capace di non servire gli interessi immediati del capitale nei giochi di breve periodo del consenso e delle elezioni?
Possiamo allora, ancora una volta, declinare tali ragionamenti prendendo ancora in considerazione la Bergamasca e delineando scenari futuri.
Quale sarà il futuro del mondo e dell’Occidente in particolare è difficile da immaginare ora ma sicuramente pochi sono gli elementi che ci invitano all’ottimismo. Bergamo con la sua struttura industriale potrebbe pagare un caro prezzo, tanto più che la natura industriale della Bergamasca è fortemente connotata dal contoterzismo, quindi dipendente da domanda e commesse estere. Perciò l’industria bergamasca è in balia di variabili a lei esterne. Per quanto riguarda il settore terziario ed in particolare il turismo la crisi sarà altrettanto pesantissima: il progetto della “Bergamo da bere”, del salotto buono e del lusso sono spazzati via dalla storia. Infine se, come sembra, pochissime compagnie aeree riusciranno a sopravvivere e sopravvivranno solo se nazionalizzate, è difficilissimo immaginare la sopravvivenza delle compagnie low cost, con l’effetto di un drastico ridimensionamento dell’aeroporto cittadino.
Se tutto questo si verificherà allora, il futuro di Bergamo si preannuncia molto più cupo di quanto non possiamo oggi immaginarci. Da queste considerazioni scaturisce un’altra importante riflessione: quel modello economico, politico e sociale che ha contribuito alla diffusione del Covid-19 è lo stesso che non può risultare né praticabile né sostenibile ai fini della ripresa del territorio.
Quel modello era sbagliato prima e, a maggior ragione, lo sarà anche dopo. Anche in questo caso la specificità di Bergamo assume connotati paradigmatici. È l’esempio chiaro di un modello che applicato nuovamente dopo il dramma della pandemia porterebbe ad un nuovo e più lungo dramma per tutta la provincia bergamasca. Come uscire da questa situazione?
Un altro mondo è… inevitabile
Per cultura e tradizione i Bergamaschi sono sempre stati convinti che per superare le difficoltà economiche basti lavorare, magari anche il doppio di quanto non si faccia abitualmente, essere più veloci e produttivi. Bene, questa volta non basteranno neppure 24 ore al giorno di lavoro per uscire dalla crisi che ci piomberà addosso. Non basterà altresì, semplicemente trovare le responsabilità di questo o di quel politico né tantomeno gli stucchevoli balletti e rimpalli di responsabilità tra le forze politiche: non solo nella Bergamasca, ma in tutto il Paese ormai da decenni si pensa di risolvere la situazione cambiando le persone, condannando le disoneste e le incapaci, trovando di volta in volta il nuovo salvatore della Patria. Sarebbe giunta l’ora di comprendere che tutto questo non basta, che le inconsistenti figure della politica lombarda e bergamasca che ricoprono oggi i ruoli apicali delle istituzioni, hanno ormai un futuro comunque scritto nella polvere. Ma servirà a poco cambiarle: la questione non è riducibile al piano dell’etica bensì deve essere posta sul piano politico, la questione non è sostituire le figurine vecchie con le nuove ma affrontare il problema nella direzione di un cambiamento sistemico e strutturale.
Un cambiamento sistemico e strutturale è di per sé inevitabile. Lo shock provocato dal Covid-19 cambierà le traiettorie del sistema-mondo provocando una generale accelerazione di processi economici e sociali, ma la direzione di tali traiettorie non è affatto scontata. Possiamo entrare in un nuovo mondo nel quale le pandemie e il generale processo di impoverimento e precarizzazione della vita diverranno la nuova normalità, oppure possiamo capire fin da ora che questo è il momento nel quale pensare a come cambiare il nostro concetto di produzione, trasporto, consumo, insomma l’intera organizzazione economica del sistema. Dobbiamo anche sapere che tutto questo non si realizza con semplici aggiustamenti, non è più possibile: la radicalità della situazione impone risposte altrettanto radicali che prevedono la totale inversione di marcia e la demolizione di una cultura economica e sociale che ci ha dominato negli ultimi 4 decenni.
Non si tratta, quindi, semplicemente di uscire da questo pantano nella sola logica – e spesso – retorica del fare. Si tratta di pensare, qui e ora, a come realizzare un mondo nel quale la redistribuzione della ricchezza, la sostenibilità sociale e ambientale devono essere al centro del pensiero e dell’azione senza la vana speranza di ottenere tutto questo al di fuori della sfera di un conflitto che appare inevitabile. I soggetti sociali ed economici che trascinano ostinatamente la storia in una direzione contraria concederanno in futuro meno che nulla. Questo vale tanto a livello globale quanto a livello locale. Anche Bergamo dovrà ripensarsi e ripensare a come realizzare un futuro diverso e a misura dei suoi abitanti, quello di prima non è proponibile, ma bisogna partire da ora, non domani: ci hanno impedito di realizzare un altro mondo possibile che a noi appariva necessario; oggi, che piaccia o meno, un altro mondo si profila all’orizzonte come inevitabile, e sta a noi impegnarci affinché non sia peggio di quello di prima.