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“Noi non spariamo con la pistola, spariamo con l’anima” Contributo ai dibattiti della Comune delle comuni (Commercy, 18-19 gennaio 2020)

Raoul Vaneigem 30/01/2020
Raoul Vaneigem ha inviato questo testo all’Assemblea cittadina di Commercy, nell’Est della Francia, alla vigilia dell’Incontro delle Comuni libere e delle Iniziative comunaliste del 18 e 19 gennaio 2020, presentandolo come segue:

Tradotto da Silvana Fioresi

Editato da Fausto Giudice

A quelle·i di Commercy,

Nel desiderio di dare il mio personale contributo al cruciale dibattito sulla Comune e sul comunalismo, mi permetto di condividere con voi alcune riflessioni. Usatele come volete. Il mio nome ha poca importanza, solo l’efflorescenza delle idee è indispensabile alla coscienza di un movimento insurrezionale che si sta gradualmente diffondendo in tutto il mondo.
Tutto ciò che vi chiedo è che non alteriate il significato delle mie parole (ma questo va da sé) e che mi inviate un semplice avviso di ricevimento.
Grazie. Buoni dibattiti.
Viva la revolución!
Fino ad ora il capitalismo ha vacillato solo per le sue crisi di sviluppo interno, sui suoi flussi di crescita e decrescita. Ha progredito, un fallimento dopo l’altro. Non siamo mai riusciti a farlo cadere, se non in brevissime occasioni in cui il popolo ha preso in mano il proprio destino. 
Non è fare i profeti affermare che siamo entrati in un’era in cui la congiuntura storica è favorevole alla crescita del divenire umano, alla rinascita di una vita ebbra di libertà. Ne abbiamo abbastanza dei muri del pianto! Troppi inni funebri minano in sordina il discorso anticapitalista e gli danno uno sfondo di sconfitta.
Non nego l’interesse di osservatori del disastro. Il repertorio delle lotte si iscrive nella volontà di rompere la mondializzazione finanziaria e di instaurare un’internazionale del genere umano. Spero soltanto che vengano ad aggiungersi i progressi sperimentali, i progetti di vita, gli apporti scientifici, di cui la poesia individuale e collettiva cosparge troppo discretamente i suoi territori.
Rivendicare i diritti della soggettività è un atto solitario e solidale. Non c’è niente di più esaltante che vedere gli individui liberarsi del loro individualismo come l’essere si libera dell’avere. Ci vorrà tempo? Senz’altro. Ma imparare a vivere, è imparare a rompere la linea del tempo e bandire dal presente il ritorno al passato, dove si scavano gli abissi del futuro. Un divenire mantenuto allo stato fetale per diecimila anni risorge come quando vediamo un oggetto del passato risalire dalle profondità della terra. È un filo di paglia nel carro di fieno dell’oscurantismo universale. Un’infima scintilla vi ha appiccato il fuoco. Il mondo intero va a fuoco. 
Veder affermarsi, in questa insurrezione plebea, una radicalità, di cui non ho mai smesso di affinare la coscienza, aumenta la mia gioia. Ne va della mia propria vita aggiungere qualche goccia d’acqua all’oceano di solidarietà festiva che batte sotto le mie finestre. Perché il popolo non è più una folla cieca, è un insieme di individui risolti a sfuggire allo scervellamento individualista, è un gruppo di anonimi che il loro statuto di soggetti premunisce contro la mercificazione. Hanno revocato il loro statuto di oggetti, hanno disertato la mandria quantitativamente manipolabile da parte dei tribuni di destra e di sinistra.
Un giorno ho scritto: “La vita è un’onda, il suo riflusso non è la morte, ma è la ripresa del suo slancio, il soffio della sua espansione” . Con ciò manifestavo il mio rifiuto verso il dominio mortale al quale siamo così servilmente sottomessi. Con ciò invito a riflettere sulle implicazioni che questo proposito riveste nelle pratiche autodifensive che la potenza poetica crescente delle insurrezioni mondiali mette in atto. 
La terra è il nostro territorio. Questo territorio ha le dimensioni della nostra esistenza personale. È locale ed è globale, perché non passa un solo istante senza che tentiamo di districare, in noi stessi e nel mondo, tra i piaceri che ci toccano e i malanni che ci affliggono. Evoluiamo in permanenza tra quello che ci fa vivere e quello che ci uccide. Solo l’individualista (quel cretino tramutato da soggetto a oggetto) vede la preoccupazione di sé diventare ombelicismo, il calcolo egoista prevalere sulla generosità solidale, la fittizia libertà arruolarsi tra le schiere della servitù volontaria e della rassegnazione arrabbiata.
Occupare il territorio della nostra esistenza, è imparare a viverci, non a sopravviverci. Da qui la domanda: come vivere senza rompere il giogo delle multinazionali della morte?
Scegliere lo svago dell’insurrezione permanente. Il tempo della vita non è quello dell’economia. Il capitalismo è caduto nella trappola della rendita a breve termine. La nostra determinazione vitale si basa, invece, sul lungo termine. Tener duro, colpire la finanza a botte ripetute, moltiplicare le zone di libero scambio rientra in una guerriglia di assillamento che richiede più ingegnosità che violenza (come anche lo dimostrano l’imposizione della tariffa zero ai pedaggi autostradali, il libero passaggio alle casse dei supermercati, il blocco dell’economia).
Lo Stato fuorilegge. Il capitalismo e la sua polizia di Stato non ci faranno dei regali. Combatteranno l’emersione di zone da cui saranno bandite l’oppressione di Stato E la reificazione mercantile. Sanno che lo sappiamo e credono di farci strisciare stentatamente sotto le minacce dei loro grossi battaglioni. Tuttavia, la loro iattanza li acceca. In effetti ci consegnano un vero e proprio regalo. Ci lasciano niente di meno che una ragione che annulla la ragione di Stato. A forza di riformare, rimodellare la democrazia a colpi di manganello e menzogne, il governare diventa dittatura. Pertanto, si rivolge contro il diritto irrinunciabile alla dignità umana. Giustifica la disobbedienza civile in ricorso leggitimo contro l’inumanità. Ebbene sì, il nostro diritto alla vita garantisce ormai la legittimità del popolo insorto. Questo diritto mette fuori legge lo Stato che lo viola. 
L’autodifesa contribuisce all’auto-organizzazione. Ci pone davanti a un’alternativa: lasciarla disarmata è un suicidio, ma militarizzarla l’uccide. La nostra sola possibilità è innovare, oltrepassare il dualismo dei contrari, l’opposizione tra il pacifismo e la guerriglia. L’esperienza è in atto, è appena cominciata. L’Esercito zapatista di liberazione nazionale (EZLN) possiede, come ogni esercito, una struttura verticale. Tuttavia la sua funzione ha come scopo garantire la libertà e l’orizzontalità delle assemblee in cui gli individui prendono collettivamente le decisioni considerate migliori per tutte e tutti. Le donne hanno ottenuto, tramite un voto democratico, la garanzia che l’EZLN interverrebbe solo a titolo difensivo, mai a scopo offensivo. La sola presenza di una forza armata basta oggi a dissuadere il governo di schiacciare gli zapatisti ricorrendo all’esercito e ai paramilitari. Nulla è scontato, tutto si svolge di continuo.
La situazione nel Rojava è diversa. La guerra condotta dall’ internazionale del profitto ha condannato la resistenza popolare a rispondere sul terreno del nemic, con le sue armi tradizionali. Si trattava di uno stato di emergenza. Tuttavia, il predominio delle donne, la volontà di fondare delle comuni libere dal comunitarismo, il rifiuto della politica affarista e il primato accordato all’umano lasciano augurare un rinnovo radicale dei modi di lottare. Evidentemente questi esempi non sono per noi un modello, ma possiamo imparare dal loro carattere sperimentale.
Federare le lotte. Ciò che crudelmente manca alle insurrezioni che guadagnano poco a poco la nostra terra, minacciata da ogni parte, è una coordinazione internazionale. Se la nascita del movimento zapatista non è stata soffocata sul momento, è a causa di una mobilizzazione immediata delle coscienze. Un’ondata di choc ha scosso l’apatia generale. Anche se il movimento dei Gilets Jaunes ha strappato l’intelligenza popolare a una lunga letargia, la fiacchezza mediatica, il martellamento delle menzogne, della neolingua che inverte il senso delle parole hanno ripreso piede e aumentato notevolmente l’efficacia della macchina di incretinimento. Avremmo potuto supporre che un’ondata d’indignazione e di protesta mondiale – un “Io accuso” universale – liberasse Julien Assange e proteggesse i lanciatori di allarme. Lo spessore del silenzio ha mostrato che l’era degli assassini si installa a passi felpati. Il cimitero è il modello sociale programmato. Lo possiamo tollerare?
Né trionfalismo né disfattismo! La vita ha emesso un grido che non si spegnerà. Che ci basti diffonderne la coscienza ai quattro angoli del mondo. Abbiamo una potenza creatrice inesauribile. Ha il potere di soppiantare con i ritmi della vita ritrovata la noiosa danza macabra in cui il vivente marcisce.
Spogliandoci dei nostri mezzi esistenziali lo Stato non ci protegge più contro il crimine, ma è il crimine. La nostra legittimità è abbatterlo. Lo richiede la difesa della vita, della natura, del senso umano. Abbatterlo? No. Concepito così, il progetto si intacca di una connotazione militare e spaccona da cui gli esempi del passato incitano a diffidare. Piuttosto non è meglio svuotarla dall’interno, raccogliere e farci carico di questo bene pubblico di cui era tenuto di garantire gli acquisiti e che invece ha venduto agli interessi privati? È questa la Comune, no?
Ciascuno e ciascuna è libero di scorticare dall’alto lo Stato e il sistema mafioso di cui è il braccio oppressivo. Abbiamo visto moltiplicarsi, con una precisione analitica da bisturi, rivelazioni e denunce che hanno messo a nudo il re fino allo scheletro della sua disumanità transumanistica. Hanno smascherato il lavoro sporco tramato nel retro del teatro dell’Eliseo. Mostravano come la realtà, forgiata dagli sfruttatori, tenda, a causa dell’enormità della loro menzogna, a sostituirsi alla realtà che gli sfruttati vivono. Così come siamo arruolati di forza in un mondo capovolto in cui siamo solo delle pedine manipolate da deficienti. Sono accuse implacabili contro lo Stato, ma lo Stato le respingerà a colpi di piede, finché, questo piede, non l’avremo tagliato.
Il governo legifera a dispetto delle sofferenze del popolo nello stesso modo in cui i tifosi della corrida ne nascondono la sofferenza animale. Da parte mia, insorgo solo davanti all’innocenza oppressa. Ho sempre scelto di sradicare la miseria del vissuto – a cominciare dalla mia – per abolire, attaccandolo dal basso, il sistema dall’alto che ne è la causa.
Ridiscendiamo sulla nostra terra! Lo scandalo non è lassù dove i sociologi e gli economisti sbalorditi esaminano l’ammasso d’immondizia, ma è qui, alla base della piramide, è nel fatto che abbandoniamo tra le mani di incompetenti e di ladri degli argomenti che ci toccano da vicino: l’istruzione, la sanità, il clima, l’ambiente, la sicurezza, la finanza, i trasporti, l’affanno dei disereditati e degli immigrati. Il nostro impoverimento paga il prezzo delle guerre petrolifere, delle rapine sul rame, il tungsteno, le terre rare, delle piante catturate dai brevetti farmaceutici. Continueremo a finanziare con le nostre tasse lo spoglio delle nostre risorse e il divieto di gestirne l’uso?
I fatturati e i loro gestori se ne fregano delle scuole, come anche dei letti e delle cure di cui gli ospedali hanno bisogno. E noi rimaniamo lì inebetiti davanti all’inumanità criminale che i governanti avvolgono nel cilicio ovattato della loro arroganza. Che c’importano i loro discorsi contro la violenza, lo stupro, la pedofilia mentre la predazione, base dell’economia, è spronata dappertutto e proferita ai bambini sotto la sferza della concorrenza e della competizione?
Fino a che ignobile livello di schiavitù consenziente un popolo deve arrivare, per accettare il fatto che i ricchi responsabili della sua miseria lo spoglino della stessa esistenza, famiglia, ambiente che lui stesso è capace di gestire? Il fallimento dello Stato è la vittoria pirrica delle multinazionali del « profitto sprecato ». Tocca a noi giocare. E giocare in favore della vita, vuol dire lasciarla vincere. Che ce ne facciamo dei loro ministeri e delle loro burocrazie, che hanno come missione di dimostrare che l’arricchimento dei ricchi migliora la condizione dei poveri? Che il progresso sociale consiste a diminuire le pensioni, i sussidi di disoccupazione, le stazioni, i treni, le scuole, gli ospedali, la qualità dell’alimentazione. Quando ci riapproprieremo di quello che appartiene all’umanità e che è alla nostra portata? Visto che questo bene pubblico è ciò che ci tocca da vicino, che fa parte della nostra esistenza, della nostra famiglia, del nostro ambiente.
Nei confronti delle istituzioni cosiddette dirigenti, erigiamo come un’esigenza assoluta il fatto che la libertà umana revochi le libertà del profitto, che la vita è più importante dell’economia, che l’oggetto manipolato ceda il passo al soggetto, che il lavoratore, prodotto e produttore della sfortuna, impari a diventare il creatore del mondo creando il suo proprio destino. I responsabili dell’inquinamento e degli incendi del pianeta usano l’ecologia come un detergente per lavare il denaro sporco. Contemporaneamente, al bar della menzogna quotidiana, i consumatori brindano alle misure prese in favore del clima mentre a dieci metri da casa loro si svolge la lotta contro i pesticidi, contro le industrie Seveso, contro il profitto nocivo. Come non vederci la prova che le nostre lotte sono locali e internazionali?
Il paese, il quartiere, la regione non hanno bisogno di un ministero per promulgare il divieto di imprese tossiche dal momento in cui è fondato su delle pratiche e esperimenti nuovi, come la permacultura, l’invenzione di prodotti utili, piacevoli e di qualità. Promuovere trasporti gratuiti è una risposta plausibile alla privatizzazione di ferrovie e di autostrade tramite la truffa governativa. L’autocostruzione è capace di demolire la speculazione immobiliare. Stimolare la ricerca di energie non inquinanti (centrali solari ?) può liberarci dal petrolio, dal nucleare, dal gas di scisto. Quanto al ministero dell’istruzione concentrazionaria, non resisterà alle scuole di vita diffuse ovunque dalle iniziative individuali e famigliari.
Lasciamo l’affarismo uscire o no dell’euro, non è problema nostro. La vera questione è prevedere la scomparsa dei soldi e concepire delle cooperative che favoriscano lo scambio di beni e servizi, tramite il ricorso, o no, a una moneta non cumulabile. Il fatto che queste soluzioni, praticabili in piccole entità, siano poi federate regionalmente e internazionalmente, segnerà in modo decisivo il corso dell’organizzazione tradizionale delle cose. Fino ad ora, è stata privilegiata la quantità. Ragionavamo solo in termini di grandi insiemi. Il regno del numero, delle cifre, delle statistiche imponeva alle folle gregarie un disordine in cui l’ordine repressivo appariva falsamente come un fattore di equilibrio.
Vivere la Comune. La comune autogestita è il potere del popolo dal popolo. Nello stesso modo in cui la struttura familiare patriarcale fu la base dello Stato, sacro o profano, la Comune e le sue assemblee autogestite faranno battere il cuore della generosità individuale. Nello stesso modo in cui la religione era stata un tempo il cuore fittizio di un mondo senza cuore, la vita umana impone ormai il suo ritmo al mondo nuovo. Abbandona il vecchio all’estenuante tachicardia delle speculazioni borsistiche.
L’insurrezione pacifica è una guerriglia smilitarizzata. Deve avere come base e come scopo l’auto organizzazione delle comuni autonome. Il nostro nemico più temibile è meno l’autorità del signore che la rassegnazione degli schiavi. L’abolizione dello Stato, come organo di repressione, passa dallo sviluppo crescente della disobbedienza civile. La resistenza, la tenacia e l’ingegnosità dei Gilets Jaunes mi ha suggerito di chiamare “pacifismo insurrezionale” o “insurrezione pacifica” la determinazione di affrontare la violenza della repressione dello stato e di tener duro senza ricadere nel sinistrismo paramilitare, nel retrobolscevismo o in altre palinodie guevariste.
Evitare il faccia a faccia con la potenza repressiva del nemico implica nuovi tipi di approcci nella gestione dei conflitti. Fino ad ora quello che ha fatto prova di maggior efficacia è stata la risoluzione, allo stesso tempo ferma e fluttuante, dei Gilets Jaunes. È il loro modo di intervenire là dove non nessuno se li aspetta, di colpire, di assillare, di apparire, di allontanarsi e di essere onnipresenti. Quello che loro hanno, al posto di un “coltello senza manico la cui lama è scomparsa”, è un’insolita e sorprendente inventiva. Così come lo esprimeva poeticamente un insorto: “Non spariamo la pistola, spariamo con la nostra anima”.