PALESTINA.Le alternative economiche all’occupazione: il caso Sebastia
Francesca Merz 4 dicembre 2019 |
Situato a pochi chilometri da Nablus, il paesino palestinese è diventato “il villaggio della ceramica” grazie ad un modello virtuoso di recupero del territorio in cui si sovrappongono più livelli di valorizzazione economica e sociale
La Palestina e il suo popolo, per necessità storica ed economica hanno dovuto non solo contrapporsi con la resistenza sociale, ma anche economica al colonialismo israeliano . Abbiamo già avuto modo di affrontare le problematiche derivanti dai Protocolli di Parigi e dalla loro attuazione a senso unico: l’apartheid, infatti, è prima di tutto economico. Questo ha comportato la necessità di uno sviluppo delle attività imprenditoriali in Palestina, per forza differente rispetto al resto del mondo. Quelli su cui vogliamo qui concentrarci sono alcuni esempi virtuosi, capaci di costruire competenza, economia, comunità. Arrivare nella cittadina di Sebastia dopo giorni e giorni passati tra check point, villaggi distrutti e catene di centri commerciali lussureggianti, è una di quelle boccate d’aria e di vita da cui non vorresti andare mai via.
Un viaggio in Palestina non è uno scherzo, e mette in circolo una serie di emozioni e sensazioni a cui è difficile essere preparati, si ha voglia, ad un certo punto, di pensare che tutto possa cambiare, che si possa ancora invertire la rotta, che possa ancora esistere in quel confuso mondo fatto di muri e controlli senza sosta, un luogo in campagna, dove fare colazione con olive fresche e formaggio di capra sotto un pergolato rigoglioso, dove la storia di quelle terre vive in tutte le sue infinite stratificazioni senza che nulla sia stato eliminato, senza che la memoria sia un cassetto da distruggere, ma invece da conservare e valorizzare, un luogo in cui cooperative di donne raccolgono negli aranceti che profumano le strade, arance mature per farne marmellate dal sapore antico, un luogo in cui la comunità ha saputo raccogliersi intorno ad un progetto, recuperando ogni singolo pezzo di quella cultura immateriale che ha fatto della Palestina, nei secoli, la terra della promessa, della bellezza, dell’abbondanza.
Arrivando a Sebastia è possibile trovare tutto questo, trovare la vita, che pulsa ancora di quel sapore che quei luoghi dovevano avere prima della terribile devastazione della Nakba. Siamo in area A, a qualche chilometro da Nablus, e siamo dentro un progetto straordinario, coordinato dal Mosaic Center di Gerico. Il Mosaic Center di Gerico nasce nel 2003 alla conclusione di un progetto di cooperazione italiana promosso dalla Ong CISS in collaborazione con lo SBF francescano e il Ministero Palestinese del Turismo e Antichità; da allora nella vicina Sebastia è partito un progetto di riqualificazione del borgo antico: sono state ristrutturate intere porzioni del paese, in particolare le antiche case palestinesi, ora riconvertite in guest house, per ospiti che prediligono un turismo del tutto consapevole, percorsi nella natura, trekking, cibo coltivato e raccolto in buona parte nelle vicinanze. Il turismo che riesce ad arrivare qui è un del tutto differente da quello che si può trovare nelle strade di Gerusalemme (a tal proposito, rimandiamo all’articolo “La Nuova Gerusalemme, terra promessa o mummificata”), capace di cercare autonomamente sui motori di ricerca, o coordinato da piccole organizzazioni religiose.
A Sebastia, antica capitale della Samaria, non solo è stato portato avanti il restauro delle case rurali, ma è stato costituito anche un laboratorio di ceramiche dove lavorano quattro ragazze. Qui le prime due stanze della Guest house furono aperte dopo lunghi anni di restauro nell’aprile del 2009, da allora non sono più stati dati soldi al progetto, che è divenuto capace di autosostenersi con i proventi del turismo, dei servizi, della vendita dei prodotti, così come come le quattro ragazze del laboratorio di ceramica, che si pagano il loro stipendio dalla produzione dei manufatti. Un progetto economico, culturale e sociale, che dimostra come i fondi spesi con una lungimirante progettazione economica (come ci si aspetterebbe da qualunque governo per la rivalutazione economica e sociale di centri ad altissima valenza storica) abbiano portato e possano portare alla costituzione di piccola e media impresa anche nella Palestina occupata. Non certo per scelta, ma per necessità, essendo totalmente tagliata fuori dal libero commercio, in Palestina si stanno dunque strutturando modelli economici che potremmo invece definire all’avanguardia in termini di produzione, capacità di rivalutazione degli antichi mestieri, sostenibilità etica e ambientale. Anche al Mosaic Center di Gerico, le attività, iniziate con la formazione di due persone, ora comprendono il coinvolgimento di ben venti persone; sono riusciti a tenere aperte le loro attività quando molti altri chiudevano, puntando sui beni culturali, sullo studio della storia e delle antiche tradizioni, di cui proprio l’arte del mosaico è una punta di diamante. Nell’ambito di questa evoluzione di arti e mestieri e sulla base della loro rivalutazione in chiave di start up, come le chiameremmo noi, va detto che, oltre alla difficile condizione dell’essere sotto occupazione, si somma anche la totale cecità da parte dell’Autorità Palestinese, che non investe alcuna risorsa.
Le decisioni politiche, tra cui quella di chiudere la Facoltà di Archeologia, fanno capire la scarsa attenzione dell’Autorità e creano la conseguente scarsità di consapevolezza della propria storia da parte della popolazione, che si allontana da certe tematiche. Va detto che, a differenza della media dei cittadini israeliani, del tutto filo-governativi, i palestinesi sono lucidamente mediamente molto critici nei confronti dell’Autorità, specie in relazione alle politiche economiche, sociali, e di finanziamento degli scavi e del turismo, riconoscendo la grande differenza tra i due approcci e riconoscendo anche in maniera lucidissima che, se in ventiquattro anni riesci ad aprire un solo sito archeologico al pubblico, come è avvenuto in Palestina, chiaramente concedi alla narrazione israeliana una incontrastata vittoria in termini mediatici. Anche un altro importante scavo a Betania, in area B, vede coinvolto il Mosaic Center, e in particolare la collaborazione tra l’Ong ATS pro Terra Sancta con l’Università Al Quds, con finanziamenti dell’Agenzia AICS del Ministero degli Affari Esteri Italiano.
“Ciò che desideriamo – afferma Carla Benelli, storica dell’arte e collaboratrice di Associazione pro Terra Santa – è espandere e migliorare la visita dei pellegrini in questo luogo, affinché capiscano perché è così importante. Ci troviamo vicino alla tomba di Lazzaro, un luogo molto importante per i cristiani”. “La cosa bella di questo progetto – aggiunge p. Ibrahim Faltas, economo della Custodia di Terra Santa – è che sono i giovani palestinesi a scavare, loro stessi lavorano qui. E questo è davvero qualcosa di nuovo, perché vengono sempre molte persone da tutte le parti del mondo nei luoghi santi, ma i palestinesi non li visitano. Sono molto contento di vedere giovani locali che partecipano a questo lavoro”. Qui la formula del turismo è diametralmente opposta a quella israeliana, il turismo è un turismo lento, spesso di piccoli gruppi, legato alla necessità di comprensione culturale e a stretto contatto con le comunità rurali, abbinata a visite approfondite legate alle stratificazioni culturali della zona: le guide palestinesi vi potranno raccontare nel dettaglio il susseguirsi delle popolazioni e le stratificazioni degli scavi, la successione di popoli quali i cananiti, gli israeliti, gli ellenici, i romani, i bizantini, gli arabi, i crociati e gli ottomani. Potrete ammirare, in luoghi come Sebastia, i resti di un tempio maestoso, le gradinate di un piccolo teatro romano, un’antica piazza colonnata, e i resti di varie costruzioni minori, così come i resti maestosi del palazzo che fu di Erode. Il nucleo storico è appollaiato in cima ad una collina, e così le sue rovine sono circondate da campi e uliveti, e hanno viste stupende sulle campagne circostanti.
Sebastia è anche un sito molto importante per i cristiani. Qui è la seconda chiesa crociata di Palestina per dimensioni, riconvertita poi in una moschea; al suo interno ospita la tomba di Giovanni il Battista, la leggenda vuole che Erode l’abbia infatti fatto decapitare proprio qui. Proprio qui, in questo angolo di mondo che sembra così lontano da quello che pare attenderlo miseramente, l’occhio si perde al di là delle valli, mentre gli ulivi danzano al vento e venditori di piccoli souvenir fatti a mano offrono olive e sorrisi in abbondanza.
Lo sviluppo di veri e propri modelli di cooperative di comunità è ad oggi il modello più interessante su cui si basa l’economia palestinese, ovvero la strutturazione di reti allargate di vendita, che fanno da catalizzatori per diverse piccole realtà imprenditoriali, che trovano proprio in queste reti la possibilità di convogliare le forze creando punti vendita eco-solidali, a cui fanno riferimento vari produttori autonomi. Tale pratica è molto utilizzata oramai anche a livello europeo come modello di sviluppo e ripopolamento di borghi e luoghi con scarsità di popolazione e di attività imprenditoriali, tentando di ricreare un legante comunitario basato sulla memoria collettiva, e anche e soprattutto sulla condivisione delle attività economiche e sulla valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale.
La volontà di scindere la comunità dal proprio territorio, e anche le singole comunità rurali una volta connesse, è stata alla base, sin dall’inizio, della strategia di occupazione da parte di Israele, che ha trovato il suo apice con la firma di Oslo, in cui la Palestina veniva frazionata, e il cui territorio e comunità unitaria venivano divisi in tanti piccoli nuclei proprio per ridurre ogni costruzione collettiva, che fosse economica, politica o sociale. La capacità, dunque, da parte di una parte dell’economia palestinese, di tornare a creare cooperative di comunità, si basa proprio su una condivisione e ricostruzione di un principio comunitario, alla base di ogni battaglia per l’autodeterminazione dei popoli. In queste pratiche cooperative gruppi di artigiani o piccoli produttori delle colline si mettono insieme e convogliano i loro prodotti presso alcuni distributori delle grandi città.
L’impatto sulla comunità è ovviamente assolutamente rilevante; essendo Sebastia un villaggio di trecento abitanti questa attività, legata alla riappropriazione dei luoghi, delle memorie e delle pratiche dell’artigianato, ha riscritto la storia del villaggio ed è diventato “il villaggio della ceramica”, con un modello del tutto virtuoso di recupero del territorio, in cui si sovrappongono più livelli di valorizzazione economica e sociale: attenzione e recupero degli scavi, valorizzazione dell’ heritage, costruzione di laboratori e start up sulla base del recupero della memoria , poiché proprio negli scavi sono stati trovati moltissimi reperti ceramici e da questo si è deciso di instaurare un laboratorio ceramico riproponendo stilemi antichi.
A Ramallah all’università di Birzeit, che è la principale della Palestina, si lavora molto sui progetti per start up, ma spesso proprio le piccole start up, che avrebbero avuto necessità di finanziamento, non sono state finanziate, prediligendo pochi progetti, anche l’elargizione dei finanziamenti viene spesso dirottata a favore di pochi interlocutori e non di piccole realtà, che magari danno meno garanzie, questo ha reso difficile per queste ultime l’accesso ai fondi. Anche l’Autorità palestinese non ha agevolato il processo, anzi ha fatto da tappo, pretendendo di fare da filtro sui soldi che arrivavano, così come le Nazioni Unite, una gran parte dei fondi finisce dunque in Israele o comunque ad alimentare quella economia, i fondi finiscono per servire quale modo passivo per tenere buona la popolazione, uno strumento quanto mai utile per gli occupanti, e come già ricordato da essi stessi utilizzato nelle prime fasi di occupazione.