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Il mondo di sotto cresce in silenzio

Raúl Zibechi e Juan Wahren 04/10/2019
I popoli dell’America Latina continuano a costruire i loro altri mondi, molto lentamente, controcorrente, nel buio della vita quotidiana, lontano, molto lontano dalle campagne che sprecano risorse e discorsi.

Tradotto da Alessandra RiccioFausto Giudice

C’è vita (e lotta) oltre le elezioni. Nei nostri paesi (Argentina e Uruguay), dagli spot mediatici fino alle discussioni fra militanti dei movimenti sociali, sono tutti centrati e concentrati sulle prossime tornate elettorali, con la speranza che, adesso sì, ci saranno cambiamenti. Anche se sappiamo che questi cambiamenti non vengono dall’alto e che quelli veri sono quelli che sapremo costruire dal basso e per il basso, ci facciamo trascinare spesso dai fuochi artificiali delle elezioni. Continuiamo a diluire il nostro potere del fare dal basso delegando il potere verso l’alto…
Eppure, i popoli d’America continuano a costruire i loro mondi altri, molto lentamente, controcorrente, nell’oscurità della vita quotidiana, lontano, molto lontano dalle campagne elettorali che sprecano risorse e discorsi. Chi ha avuto notizia della creazione della Guardia Indigena Comunitaria “Whasek” Wichi nell’ Impenetrabile, nel Chaco argentino? Chi sa della creazione del Governo Territoriale Autonomo della Nazione Wampis, al nord del Perù, una strada che stanno cominciando a percorrere altri tre popoli amazzonici?
Quanti mezzi d’informazione hanno parlato del fatto che il popolo mapuche al sud del Cile ha recuperato 500.000 ettari grazie all’azione diretta fin dagli anni novanta, quando è tornata la democrazia a metterli all’angolo con l’applicazione della legge antiterrorismo ereditata dalla dittatura di Pinochet, e poi applicata sia dai governi progressisti che da quelli conservatori?
Dove potremo mai leggere della terribile lotta dei tupinambà al sud di Bahia (Brasile), che in pochi anni hanno recuperato 22 aziende agricole, migliaia di ettari, nonostante la repressione e le torture ai loro dirigenti? Quando abbiamo dedicato un po’ di tempo a commentare la vittoria delle trenta comunità di Molleturo (Azuay, Ecuador) che sono riuscite a frenare l’impresa mineraria cinese Ecuagoldmining, dopo l’incendio dell’ accampamento? Chi parla della recente vittoria contadina in tutta la Valle del Tambo, contro il progetto di sfruttamento del rame Tía María, nel sud del Perù?
Adesso stiamo vedendo i popoli maya del sud del Messico, organizzati nell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), passare all’offensiva e rompere l’assedio militare e d’informazione del governo messicano dell’autonominata “Quarta Trasformazione”, creando sette nuovi “caracoles” e quattro municipi autonomi, per cui sono già 43 gli spazi di autogoverno zapatista in quella regione.
Il governo di Andrés Manuel López Obrador (AMLO) ha salutato e concesso la sua “approvazione” ai nuovi municipi zapatisti, non sappiamo cosa risponderanno le/gli zapatisti, ma possiamo osservare che in tutti questi anni sono andati costruendo, di fatto, la loro autonomia nei territori insorgenti dove si trovano senza bisogno dell’approvazione di nessun governante. Gli Accordi di San Andrés, firmati nel 1996, che riconoscevano l’autonomia dei popoli indigenti di tutto il Messico sono stati negati e traditi per ognuno dei successivi governi; questo non ha impedito la crescita dell’autonomia in territorio zapatista e in decine di municipi autonomi di altri popoli indigeni del paese. Più che approvare o meno questi processi a parole, il governo di AMLO dovrebbe mettere in pratica gli Accordi di San Andrés e lasciare che continui a fiorire l’autonomia indigena invece di continuare a rafforzare l’assedio poliziesco e militare delle comunità in ribellione, come stanno denunciando le stesse comunità indigene del Chiapas, sia quelle zapatiste che molte altre non zapatiste.
Per noi questi fatti sono motivo di grande gioia e ci riempiono di entusiasmo e di speranza perché confermano la volontà politica di costruire dal basso, con le donne e gli uomini del basso, in maniera autonoma, la nostra salute e la nostra educazione, i nostri spazi di vita, la nostra giustizia, in base ai poteri propri che abbiamo creato fuori dallo Stato.
Sono riusciti a rompere l’assedio che decine di migliaia di soldati hanno mantenuto dall’insurrezione del 1° gennaio 1994, quando il governo ha deciso di mobilitare metà delle sue truppe per circondare e rinchiudere le comunità ribelli autonome zapatiste. Come hanno potuto gli zapatisti moltiplicarsi, uscire dall’assedio e costruire nuovi mondi?
Come fanno sempre le classi inferiori: “compagne di tutte le età si sono mobilitati per parlare con altre sorelle con o senza organizzazione”, spiega il subcomandante insorgente Moisés nel suo ultimo comunicato. Sono le donne e i giovani che sono andati a parlare con i loro coetanei di altre comunità, non per convincerli, perché gli oppressi sanno molto bene chi sono, ma per organizzarsi insieme; per governarsi insieme.
In questa silenziosa mobilitazione tra le classi più basse, hanno visto che l’elemosina dei governi (che qui chiamiamo con un certo fasto “politiche sociali” e che non è altro che controinsurrezione) ferisce la dignità a causa del disprezzo e del razzismo che implicano. Nuovi mondi nascono dal contagio e dalla necessità, senza seguire le istruzioni dei manuali di partito o le ricette predeterminate di vecchi o nuovi leader.
Come abbiamo perso la “più bella capacità del rivoluzionario”, quella di sentire “nel più profondo, qualsiasi ingiustizia fatta a chiunque, in qualsiasi parte del mondo”, come diceva il Che? Perché non siamo più felici quando, in qualsiasi parte del mondo, chi viene dal basso mette la propria dignità come scudo davanti ai potenti, innalzando altri mondi, come i curdi della Siria settentrionale?
Noi militanti abbiamo bisogno di riformare i nostri sensi e sentimenti di vita, incontrarci di nuovo con i nostri stessi fuochi e riprendere la lotta oltre i fuochi d’artificio delle elezioni, riconfidarci nel nostro potere e governarci a distanza dallo Stato, disalienarci noi stessi e decolonizzarci per camminare insieme, non in prima linea per indicare la strada, ma spalla a spalla con i ribelli che continuano a (ri)emergere dal basso e in basso in tutta la nostra America.