Piantare la resistenza: La lotta per la sovranità alimentare in Palestina
Anne Paq e Sandra Guimarães 03/09/2019 |
In Palestina, la sovranità alimentare è intrinsecamente legata alla lotta per l’autodeterminazione.
Tradotto da Alba Canelli
L’espropriazione della terra palestinese iniziò nel 1948, quando il 78% della Palestina storica divenne Israele. Il restante 22% – ora chiamato “Territori Palestinesi” – è stato completamente occupato, o sotto il controllo dell’esercito israeliano dal 1967. In questi territori, le “zone cuscinetto”, il muro di separazione, le colonie illegali israeliane e le zone di esclusione militare stanno gradualmente privando la popolazione indigena di terreni agricoli e risorse idriche.
Aggiungete a ciò le restrizioni alla libertà di movimento e i regolari attacchi ai contadini e ai loro raccolti da parte dei coloni e capirete perché le restrizioni agricole di Israele costano all’economia palestinese 2,2 miliardi di dollari all’anno e perché il 31,5% della popolazione vive nell’insicurezza alimentare, secondo l’ONU.
L’agronomo e agricoltore Saad Dagher è un pioniere dell’agroecologia in Palestina. Egli spiega che gli abitanti della sua regione, a nord di Ramallah, erano tutti agricoltori, fino a quando negli anni ’70 non è iniziato un cambiamento. “Quando la prima persona del villaggio ha lasciato la sua terra per lavorare in una fabbrica israeliana nel 1975, la comunità ha visto questo come un tradimento della causa palestinese. Ma è stato un modo rapido per fare soldi, che ha portato gradualmente all’abbandono della terra”. Nel 2019, secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la mancanza di opportunità nel mercato del lavoro palestinese è tale che quasi 127.000 residenti in Cisgiordania devono rivolgersi ai posti di lavoro in Israele e nelle colonie israeliane.
Il signor Dagher coltiva quasi 100 piante su un piccolo pezzo di terra nel villaggio di Bani Zeid Est. Per sfamare la sua famiglia, ma anche per vendere sul mercato locale.
“In passato l’uliveto non era occupato solo da ulivi, ma anche da fichi, viti, cereali, come grano e orzo, e legumi, come ceci e fagioli. Ma queste colture richiedono più cure, così a poco a poco sono state abbandonate e sono rimasti solo gli ulivi. Oggi l’agricoltura palestinese si è completamente allontanata dai metodi tradizionali.
Mentre gli ex agricoltori palestinesi stanno diventando manodopera a basso costo dall’altra parte della linea verde, la Palestina sta diventando anche un mercato vincolato dei consumatori per Israele, che controlla le frontiere. “Siamo una nazione sotto l’occupazione israeliana e dobbiamo produrre cibo che ci renda più forti e indipendenti. Non producevamo più cibo a sufficienza, così siamo diventati dipendenti dai prodotti delle colonie illegali israeliane, piene di pesticidi”, dice l’agricoltore.
Raccogliere e seminare
Consapevoli di questo fenomeno, i palestinesi stanno intensificando le iniziative per invertire la tendenza e rafforzare la loro sovranità alimentare. Ad esempio, nella città palestinese di Beit Sahour, è stata creata una biblioteca di semi contadini. Si tratta di una collezione di semi ancestrali che possono essere presi in prestito e condivisi dagli agricoltori. Dopo anni trascorsi all’estero, Vivien Sansour, la donna dietro questo progetto, ha scoperto che molte piante locali stavano scomparendo o erano completamente scomparse.
Perdere piante come il cetriolo bianco o l’anguria di Jadu’l, che le mancava tanto quando era lontana dalla Palestina, significava perdere parte della sua identità. Così, nel 2014, ha iniziato a raccogliere dagli agricoltori, sementi di ortaggi in pericolo. È così che è nato il progetto della biblioteca delle sementi. Tuttavia, questa “guardiana dei semi” non vede l’occupazione della Palestina come un fatto isolato dal contesto globale.
“Non siete più un produttori, ma consumatori, e quale modo migliore per schiavizzare qualcuno che trasformarlo in un consumatore? Questo sta accadendo in tutto il mondo, ma qui è doppiamente accentuato dal regime di occupazione”, spiega Vivien Sansour.
“Non credo che una tale brutale occupazione militare esisterebbe senza essere legata a tutte le forze oppressive in vigore nel mondo di oggi. Oltre a vivere sotto occupazione, ci troviamo di fronte ad un sistema politico ed economico globale che ci rende schiavi delle aziende agroalimentari e delle multinazionali”, aggiunge. Elencare e conservare i semi contadini è una forma di resistenza che Vivien chiama “agro-resistenza”.
Riappropriarsi dello spazio e dell’indipendenza
Non lontano dalla biblioteca dei semi, nella città di Betlemme, si trova il campo profughi di Dheisheh. Più di 700.000 palestinesi hanno dovuto lasciare le loro case e le loro terre, dopo essere stati espulsi dalle forze sioniste quando lo Stato di Israele è stato creato nel 1948, e si sono stabiliti in questi campi, che, 70 anni dopo, esistono ancora. Ma la popolazione non ha fatto che aumentare di generazione in generazione. I palestinesi sono ancora in attesa di una soluzione politica che garantisca il loro “diritto al ritorno”, principio affermato da una risoluzione ONU del 1948.
Costruito nel 1949 per 3.000 rifugiati provenienti da 45 villaggi, il campo di Dheisheh ospita oggi 15.000 persone in un’area di meno di 1 km². È uno dei più grandi campi profughi della Cisgiordania. La maggior parte dei rifugiati palestinesi erano contadini in origine, ma nei campi sovraffollati sono ora disconnessi dalla terra, una parte essenziale della loro millenaria identità.
“E’ quasi impossibile comprare la terra ora”, dice Dragica Alafandi, che vive con la sua famiglia nel campo di Dheisheh.
Dragica è nata in Bosnia e si è stabilita in Palestina con Mustafa, suo marito rifugiato palestinese, nel 1994. Qualche anno fa ha iniziato a piantare erbe e verdure in vasi sul tetto per aumentare l’autonomia alimentare della famiglia. Nel 2017 ha ricevuto una serra da Karama, un’organizzazione comunitaria con sede a Dheisheh. Dal 2012, questa organizzazione promuove un’iniziativa di microagricoltura sui tetti, aiutando le donne di Dheisheh a creare orti.
L’acqua nei territori palestinesi è controllata da Israele ai sensi degli accordi di Oslo II del 1995, e averne abbastanza per mantenere in vita la micro-fattoria è la più grande sfida di Dragica. “I tagli all’acqua sono piuttosto difficili da gestire. L’acqua arriva più o meno ogni dieci giorni, per 24 ore. A volte meno. Poi c’è il fatto che la Palestina è sotto occupazione militare da decenni, il che si traduce in regolari scoppi di tensione, specialmente intorno ai campi. Ci sono soldati israeliani che sparano quasi ogni notte qui. Le bombe a gas lacrimogeni volano dappertutto. Il nostro tetto è abbastanza alto, ma ho ancora paura che distruggano la serra”.
Preservare la salute, il corpo e la mente
Mentre i paesi del Nord sono sempre più interessati alla qualità del loro cibo, i paesi del Sud sono sopraffatti dal cibo industriale che producono, ma che non vogliono più consumare. Se andate in un supermercato in Palestina, troverete per lo più alimenti trasformati, caricati con olio e zucchero a buon mercato, con gli stessi loghi di marca come in qualsiasi altra parte del mondo occidentale, ed etichette spesso in ebraico, provenienti direttamente da fornitori israeliani. Le alternative a disposizione dei consumatori palestinesi sono in definitiva molto limitate.
Questo ha un impatto disastroso sulla salute delle persone. “Quando distruggi la salute di qualcuno, distruggi anche la sua mente”, dice Vivien. “Dici loro che sono inutili. L’oppressione vince davvero, quando cominciamo a credere che siamo rifiuti e quindi mangiamo rifiuti. Cominciamo a vivere come se le nostre vite fossero inutili”.
Da quando ha iniziato a raccogliere il proprio cibo, Dragica ha visto cambiare il modo in cui la sua famiglia mangia. “Ora mangiamo molte piu’ insalate, più zuppe. Non possiamo coltivare tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma il poco che possiamo coltivare qui, quando lo prepariamo, è sempre speciale”.
Per Vivien, la migliore forma di resistenza è “rifiutare il discorso del tuo oppressore”, di rispondere “Non sono un bidone della spazzatura e non ho intenzione di mangiare la tua spazzatura”, “penso che tutti noi possiamo scegliere di rendere la nostra vita un po’ più tollerabile in questo momento. Perché saremo liberi. Non ora, ma lo saremo. Mi sento libera quando ho questi semi tra le mani”.
Non si tratta solo di salvare i semi o di coltivare ortaggi in casa. Si tratta di riprendere il controllo di alcuni aspetti della propria vita, in un luogo dove tutte le vite sono controllate dall’occupazione militare israeliana. “Non coltivo piante solo per mangiare”, spiega Dragica, “Coltivo piante anche per i loro valori terapeutici. E fa bene anche allo spirito. Ai miei figli piace venire qui, amano sedersi e divertirsi circondati dalle piante. Dheisheh è tutto in cemento e ferro, quindi questo giardino è un piccolo tesoro. Nei campi, i tetti sono usati come un piccolo luogo di fuga, quando non si ha nessun altro luogo in cui scappare”.
*Questo articolo fa parte del progetto Baladi -Rooted Resistance, un progetto multimediale che esplora l’agro-resistenza in Palestina.