EGITTO. L’icona della rivoluzione torna a casa, rilasciato (a metà) Alaa Abdel Fattah
Pino Dragoni 30 marzo 2019 |
Il blogger e attivista torna libero dopo cinque anni di prigione, ma sarà sottoposto a sorveglianza: 12 ore al giorno in una stazione di polizia per i prossimi cinque anni. Detenuto la prima volta a 22 anni sotto Mubarak, la sua vita racchiude quella di un’intera generazione.
Alaa Abdel Fattah è fuori dal carcere. L’attivista e blogger 38enne ha finito di scontare la sua pena di cinque anni e dopo alcuni giorni di lungaggini burocratiche per il rilascio è finalmente tornato a casa. I suoi primi passi fuori dalla prigione, gli abbracci e i sorrisi hanno iniziato subito a circolare sui social network, insieme alla gioia dei tanti, egiziani e non, che da tempo attendevano la notizia. Alaa era stato arrestato nel novembre 2013, per un sit-in contro i processi militari, organizzato proprio alcuni giorni dopo che il nuovo regime golpista aveva emanato la famigerata legge anti-proteste. Anche se non era presente in quell’occasione, la condanna riguardava anche una sua presunta aggressione a un ufficiale di polizia.
Alaa ha scontato l’intera condanna (inizialmente di 15 anni, poi ridotta a cinque), a differenza di altri implicati nello stesso processo e che hanno beneficiato di un’amnistia. Ingegnere informatico e sviluppatore di software, Alaa Abdel Fattah è stato un pioniere della blogosfera egiziana, insieme alla sua compagna e moglie Manal Hussein. In lui si condensa il percorso di una lunga tradizione di attivismo laico in Egitto. Il padre Ahmed Seif El-Islam Hamad, militante comunista arrestato negli anni ’80 durante il regime di Mubarak, è stato tra i fondatori del Hisham Mubarak Law Center, una delle prime e più importanti organizzazioni egiziane per la difesa dei diritti umani.
Sua madre, Laila Soueif, anche lei attivista di lunga data, è docente di matematica all’università del Cairo e sorella della celebre scrittrice Ahdaf Soueif. La moglie Manal è invece figlia di Bahi El-Din Hassan, tra i padri fondatori del movimento per i diritti umani in Egitto, attualmente costretto all’esilio. Le sorelle, Mona e Sanaa Seif, sono anche loro attiviste di primo piano.
Icona della rivoluzione del 2011, la vita e la militanza di Alaa in qualche modo racchiudono quelle di un’intera generazione e di tutto il movimento democratico egiziano. Ma la sua storia è anche strettamente legata alle prigioni dei vari regimi avvicendatisi negli anni.
Arrestato per la prima volta a soli 22 anni nel 2006 durante una manifestazione a sostegno dell’indipendenza della magistratura, dal 2008 era andato a lavorare in Sud Africa. Ma allo scoppiare della rivolta del gennaio 2011 era tornato subito in Egitto in tempo per partecipare alla famosa «battaglia dei cammelli» a Tahrir (in cui i manifestanti difesero strenuamente la piazza da un assalto di bande criminali assoldate dal regime) e per assistere con i suoi occhi alla caduta di Mubarak.
Dopo aver deciso di tornare a vivere stabilmente in Egitto, sempre presente nelle piazze del cosiddetto «periodo di transizione», Alaa è tornato in carcere nel novembre 2011. La sua «colpa»: aver testimoniato e denunciato il massacro del Maspero, una manifestazione di copti e solidali attaccata brutalmente dai tank dell’esercito, che uccisero nella loro corsa cieca sul sit-in pacifico almeno 27 persone. Dopo il suo arresto a migliaia sono scesi in piazza ripetutamente al Cairo e ad Alessandria per chiederne la liberazione. Quella volta il carcere gli ha impedito di veder nascere il figlio Khaled.
L’ultima detenzione invece lo ha privato della possibilità di salutare per l’ultima volta suo padre. Di tre figli, due (Alaa e Sanaa) non hanno potuto partecipare ai funerali perché in carcere. Anche durante la sua logorante prigionia, Alaa ha continuato le sue battaglie attraverso scioperi della fame, trattative con le autorità carcerarie, lettere pubbliche e scritti. Sfidando il divieto, ha rilasciato interviste e denunciato le condizioni di detenzione e le torture subite dai suoi compagni di prigionia.
Ora che è fuori, però, è libero solo a metà. Come centinaia di altri prigionieri politici, sarà sottoposto per altri cinque anni a un regime di sorveglianza che gli impone di trascorrere 12 ore al giorno (dalle 18 alle 6 del mattino) in una stazione di polizia, ancora una volta privato di fatto della libertà personale, gli affetti, la possibilità di lavorare e di muoversi. L’ennesima vendetta punitiva del regime contro chi lo ha sfidato.