Siria, le scomode donne curde di Baghouz
24/03/2019 |
Sono state le protagoniste della liberazione dall’Isis. La parità sul campo di battaglia per Erdogan e gli altri regimi è un problema culturale e politico.
Quella bandiera su Baghouz non deve sventolare più. Quella vittoria va cancellata al più presto. Perché è scomoda a molti. A tutti coloro che non possono accettare che a cancellare il Califfato siano state le milizie curde siriane. Erdogan, Assad, Khamenei: diverse motivazioni, stesso obiettivo: contenere, stroncare qualsiasi velleità politica, qualsiasi anelito autonomista dei vincitori di Baghouz. Ragioni geopolitiche: l’obiettivo strategico della Turchia è quello di creare un protettorato ottomano nel nord della Siria, spacciandolo per una “zona cuscinetto” anti-terrorismo. I turchi sono presenti con truppe speciali e reparti corazzati a Bulbol, Azaz, Marea, attorno ad Afrin; a Jarabulus, Al-Bab, Qabasin, attorno a Manbji; e a Sarabiq, Marraat al-Numan, Khan Sheikhoun, con posti di osservazione e piccole basi avanzate, attorno a Idlib. Ankara attende il nulla osta del Garante della pax siriana, il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, per qualsiasi mossa post operazione dei curdi. Avendo la Russia una forte influenza su Erdogan, per via di una serie di ragioni come anche la nuovissima centrale nucleare che Roscom sta costruendo in Turchia, è chiaro che l’intenzione di Assad di voler tornare anche nella Siria nord-orientale ricca di petrolio passerà evidentemente da un accordo con Mosca (via Ankara). E il presidente Erdogan, dopo l’anno finanziario difficile che ha trascorso per via dei ripetuti crolli della lira turca, vedrebbe di buon occhio la ricostruzione siriana, pesandola come un’occasione irripetibile per le imprese turche.
Ma quella bandiera gialla su Baghouz è una minaccia anche per Bashar al-Assad, Il raìs di Damasco, forte del sostegno militare e politico di Russia e Iran, non accetta di rinunciare al controllo totale di tutto il territorio nazionale. Quanto all’Iran, l’affermarsi della mezzaluna sciita sulla direttrice Baghdad-Damasco-Beirut non ammette presenze “ingombranti” come è quella delle milizie curde in Siria. Ragioni geopolitiche, mire di potenza, una ricostruzione da centinaia di miliardi. Ma non c’è solo questo. Fanno paura. A, sultani, generali, teocrati e autocrati che dettano legge in Medio Oriente . Fanno paura non solo perché sul campo si stanno rivelando coraggiose, capaci, determinate. Fanno paura perché sono donne. Donne curde. Sono le peshmerga che hanno combattuto le milizie del Daesh ieri a Kobane, poi a Mosul, e a Raqqa, a Deir el-Zor
Baghouz. Fanno paura, sì. E molta. Perché trasmettono al mondo arabo e musulmano, e non solo ai feroci fautori della dittatura della sharia, l’idea che la liberazione, se vuol essere davvero tale, deve essere duplice: da regimi sanguinari, sessuofobici, ma anche dalle vecchie società patriarcali. E non è un caso che in prima linea nella “rivoluzione jasmine” in Tunisia, come in quella di Piazza Tahir in Egitto, e prim’ancora nell’Onda Verde iraniana, ed oggi nella “primavera algerina”, ad esserci erano, sono, le donne. E se sono curde, beh, incutono ancora più paura, perché in un Medio Oriente dove assistiamo al riaffermarsi, violento, di identità etnico-religiose chiuse, quella curda è l’unica identità plurale, aperta, democratica. L’unica nella quale la parità di genere si realizza sul campo di battaglia come nella costruzione del “dopo”. Un dopo che non ha ancora chiarito, e non potrebbe essere altrimenti, se il sogno curdo si realizzerà in uno Stato o se quelle istanze di libertà di cui i curdi sono portatori, s’invereranno in Stati federali, fondati non solo sul rispetto dei diritti delle minoranze ma sua riconosciuta autonomia federale. Ed è proprio questa visione forte perché aperta che spaventa Erdogan, il cui vero incubo non è mai stato, e non è, l’ormai impossibile affermarsi dello Stato islamico, quanto il realizzarsi di un “Grande Kurdistan”, grande non per i territori controllati ma per la laicità della quale i curdi, a partire da quelli turchi, sono portatori.
Per questo non si vuole che a sventolare su Baghouz, sia la bandiera curda. Per quello che essa rappresenta. Molto più di una identità etnico-nazionale. Una sfida di libertà. Una sfida che viene percepita come una minaccia mortale, oltre che dal regime di Ankara, dalle petromonarchie sunnite del Golfo, come dal regime militar-religioso sciita dell’Iran. Le donne curde appartengono all’Ypg, un’organizzazione creata per garantire l’autonomia del Kurdistan siriano sia dinanzi al regime criminale di Bashar al-Assad che alle milizie jihadiste del Daesh. La loro battaglia ha avuto inizio nel settembre del 2014, quando l’Isis lanciò un’offensiva totale contro Kobane: in quel momento i membri delle Unità femminili di protezione e una milizia curda maschile indipendente decisero di schierarsi contro l’avanzata degli estremisti islamici. Nella provincia curda di Jazira, regione della Siria nord-orientale resasi praticamente indipendente negli ultimi anni di guerra civile, le donne imbracciano i fucili accanto agli uomini per difendere la loro terra.
E ora la parità tra i sessi è anche sancita dalla legge: i leader che governano l’area (un curdo e un arabo) hanno infatti emanato un decreto in 30 punti per difendere e rafforzare i diritti delle donne, “uguali agli uomini in tutte le sfere della vita pubblica e privata”, incluso quelli relativi alle candidature per le cariche politiche, al lavoro, a uno stipendio equo e all’eredità. Il divieto ai matrimoni sotto i 18 anni (un modo per proteggere le ragazze da nozze forzate e poligamia) va di pari passo con l’affermazione della possibilità di divorziare dal marito, che non è più l’unico a poter ripudiare la moglie in qualsiasi momento. Il decreto bandisce anche i delitti d’onore e le violenze sulle donne. Non è una novità per i curdi: il partito dei lavoratori (PKK) sostiene da sempre una società egalitaria e l’eliminazione del patriarcato, e per l’affermazione piena dei diritti delle donne, e il rispetto di quelli dei gay, si batte l’HDP di Selahattin Demirtaş. Le quote rosa tra i combattenti delle YPG sono il 35%. Sentirsi parte di un popolo coraggioso, tradito da tutti. Condividerne le ragioni, lo spirito, il sacrificio. Ed essere disposti a pagarne il prezzo più alto: quello della vita. E’ la fascinazione delle nuove “Brigate internazionali” combattenti nella regione del Rojava, a fianco dei Curdi. Di esse faceva parte Giovanni Francesco Asperti, 53 anni, I curdi, il popolo più grande al mondo senza uno Stato. Repressi ma mai domi. Sono le milizie dell’Ypg ad essere accorse per prime a difesa dei yazidi sterminati dai nazi-islamisti dell’Isis.
Nel nord della Siria, l’obiettivo è quello di “creare un sistema sociale autonomo”, come ha detto all’agenzia di stampa curda Firat, Nesrin Abdullah, comandante dell’unità femminile delle Ypg, che hanno portato avanti la dura lotta contro il Califfato. Ciò che spaventa gli autocrati e i teocrati mediorientali non è la forza militare dei curdi (poca cosa rispetto all’esercito turco, il secondo, dopo quello americano, quanto a dimensioni in ambito Nato) ma la capacità attrattiva del modello politico e istituzionale che propugnano: un Confederalismo democratico che ridefinisca in termini di autonomia (in particolare in Turchia e in Siria) gli Stati centralistici ed etnocentrici. In un Grande Medio Oriente segnato da una deriva integralista o da controrivoluzioni militari, il “modello curdo” va in controtendenza.
E diviene una causa per cui vale la pena di battersi, anche a costo della vita, come è accaduto per due italiani, Francesco Asperti e Lorenzo Orsetti. E’ la fascinazione delle nuove “Brigate internazionali” combattenti nella regione del Rojava, a fianco dei Curdi. “Da un mese civili e miliziani curdi sono sotto attacco della Turchia e delle milizie islamiste sue alleate, il governo turco sta cercando di cancellare chi ha combattuto Daesh e lottato per una società egualitaria e antisessista, col suo esercito, il secondo della Nato, nostro alleato”. Così racconta all’Ansa quanto sta accadendo in Siria ‘Gabar Carlo’, nome di battaglia di un “combattente internazionalista” italiano. ‘Gabar’, come un monte del Kurdistan turco dove 40 anni fa è cominciata la lotta di quel popolo, e ‘Carlo’ per Carlo Giuliani: lui ha 30 anni, è di origini pugliesi, e la scorsa estate ha lasciato casa, lavoro e tutto il resto per unirsi come volontario combattente alle Ypg, Gabar è arrivato in Basur, Kurdistan iracheno, l’1 agosto 2017, per poi passare in Rojava due settimane dopo ed è tornato in Italia un mese fa. “Vorrei tornare dai miei compagni in Siria, ora però non è possibile. Ho portato la rivoluzione con me – dice – e voglio raccontarla per far sentire la voce di chi non ha voce”. In questo momento nelle Ypg ci sono, secondo Gabar, cinque La prima volta che Gabar ha sentito parlare dei curdi era un bambino, nel 1998, quando il leader del Pkk Ocalan era in Italia, lo aveva visto in tv, in uniforme militare. “Lo definivano terrorista, ma mio padre mi spiegava che era un partigiano e lottava per la liberazione del suo popolo”. Quella suggestione di bambino, anni dopo, si sarebbe trasformata in impegno concreto. “Durante l’assedio di Kobane – spiega Gabar – ho capito che dovevo andare a guardare con i miei occhi la rivoluzione dei curdi, perché non riguarda solo loro. L’obiettivo della costituzione di uno stato nazionale è stato superato da quello di confederalismo democratico, di autonomia e autogoverno dai Paesi in cui i curdi vivono e convivono con altri popoli, arabi, assiri, siriani, turcomanni. Non si va lì solo per i curdi, sconfiggere i regimi è una lotta che riguarda tutti e ovunque”.
Le donne, nel processo di riforma democratica, hanno un ruolo determinante. “Le unità di protezione del popolo, Ypg, sono composte da uomini e donne che combattono e godono di grande autonomia, nella società e nel movimento. Nella società mediorientale, la centralità del ruolo della donna e la lotta al patriarcato sono davvero un fatto rivoluzionario”. “La prima cosa che ti spiegano – dice – è che il fine della lotta è l’autodifesa del popolo, c’è un’etica alla base di ogni azione, nessuno va a combattere solo per uccidere, al primo posto c’è la sicurezza dei civili”. Anche per questo, soprattutto per questo, quella bandiera gialla su Baghouz va ammainata.