Siamo noi italiani i migranti di cui parlare
Francesca Borri 25 luglio 2018 |
“E certo che ho votato Salvini! Non sono razzista. Ma è un’invasione, qui. Un’invasione! Non so come sopravviveremo”, mi dice uno dei clienti del caffè in piazza a Casciana Terme.
Ogni volta che torno a casa mi si avvicinano per chiedermi di scrivere di questo e di quello e di fare giustizia, anche se poi nessuno legge più i giornali. Fuori, una ragazza romena passeggia sottobraccio a una signora con il cappello. Le badanti, qui, sono le uniche straniere. E senza, non so come sopravviveremmo.
“Non sono razzista. Ma sono stato un imprenditore tutta la vita e ti garantisco che così andremo in bancarotta”, mi dice. E in effetti. Non ha mai pagato le tasse. Mai. Altrimenti, dice, lo Stato mi avrebbe strangolato. Come potremmo non andare in bancarotta?
Tanti mi domandano: perché non scrivi dei migranti? Perché è quello che vogliono. Vogliono che parliamo dei migranti, invece che dei problemi veri. Che non sono problemi solo italiani. E il problema è proprio questo. Che sempre di più, lo Stato nazionale è inadeguato a fronteggiare sfide che trascendono i suoi confini. E i suoi poteri.
Da quando per le imprese è diventato facile trasferire la produzione altrove, in paesi in cui i salari (e spesso anche i diritti) sono minori, è iniziata una corsa al ribasso senza fine. Mentre l’evoluzione tecnologica, intanto, riduce sempre più il numero dei lavoratori – quando è stata comprata da MarkZuckerberg, per 19 miliardi di dollari, Whatsapp aveva 55 dipendenti. E in tutto questo, controlli zero e connivenze favoriscono le speculazioni degli squali della finanza. Speculazioni che alla fine, periodicamente, siamo chiamati a pagare noi, salvando le banche a nostre spese. Perché i manager, invece di essere puniti, vengono premiati. Ormai, guadagnano il 434 percento in più dei loro dipendenti. Che sempre più spesso, invece, lavorano, e non campano: in Italia, l’11,7 percento resta sotto la soglia di povertà.
Se non parlo di migranti è perché è di questo che bisogna parlare. Ma sono cose su cui il governo non ha niente da dire. Dopo 30 giorni, e sette Consigli dei ministri, non ha approvato che due decreti. E su questioni di ordinaria amministrazione.
Uno dei giornalisti che leggo di più è Riccardo Staglianò. Perché fa reportage. Sta per strada e quindi racconta le storie che contano. E non a caso, quello di cui si occupa più spesso è proprio questo. Quelle cifre su Whatsapp vengono dal suo ultimo libro, che si intitola Lavoretti: quello che l’economia di oggi offre alla mia generazione. In cui, in teoria, siamo tutti imprenditori di noi stessi. Anche il tassista Uber che neppure conosce il nome dei suoi clienti, e dorme nel parcheggio di un centro commerciale per fare più corse, e di inverno, si sveglia ogni tre ore per accendere il riscaldamento: con i barboni che lo osservano perplessi dal finestrino.
Non siamo liberi: siamo sfruttati e basta. Con una partita Iva solo perché altrimenti, con un contratto, l’azienda dovrebbe pagarci i due terzi dei contributi. Così, invece, paghiamo tutto noi. Senza indennità di malattia, senza ferie: senza mezzo diritto. Stiamo andando a schiantarci dritti contro un muro. La capacità di spesa crolla, crolla il consumo: e crolla la produzione. E tutto questo perché? Perché gli “afri-cani” raccolgono arance a Rosarno per 15 ore a 15 euro, e ci rubano il lavoro, o forse perché in questi anni i maghi dell’elusione fiscale hanno consentito alle prime 50 aziende americane di occultare 1,3 trilioni di dollari?
E per ogni dollaro di tasse, ricevono 27 dollari di aiuti statali. Nel 2016, in Italia sono arrivati 181mila stranieri. E sono andati via 285mila italiani. Nell’elenco dell’OCSE dei paesi di origine dei migranti, l’Italia è ottava. Dopo la Cina, la Siria, la Romania, la Polonia, l’India, le Filippine, e il Messico. Siamo noi, oggi, in Italia, i migranti di cui parlare.