Perché le navi delle ong non sbarcano i migranti a Malta?
Annalisa
Camilli, Internazionale, 22 marzo 2018
Una delle
accuse che la procura di Catania ha sollevato alla nave umanitaria spagnola
Open Arms è quella di non aver sbarcato a Malta i migranti soccorsi al largo
della Libia il 15 marzo.
Migranti soccorsi dagli operatori dell’ong Procativa Open Arms al porto di Pozzallo, il 17 marzo 2018. (Antonio Parrinello, Reuters/Contrasto) |
A questa
e ad altre domande hanno risposto il fondatore della Proactiva Open Arms Oscar
Camps, il portavoce italiano dell’ong Riccardo Gatti e l’avvocato penalista
Alessandro Gamberini in una
conferenza stampa che si è tenuta a Roma il 22 marzo, organizzata
dal presidente della commissione diritti umani del senato Luigi Manconi. Ecco
alcune delle domande e delle risposte dell’organizzazione, accusata di
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a
delinquere.
Perché le
navi delle ong non sbarcano i migranti a Malta?
Il 16
marzo – il giorno successivo al salvataggio di 218 migranti – il medico della
Open Arms ha informato il coordinatore della missione che era necessario
portare nell’ospedale più vicino una neonata. Per questo, la nave umanitaria ha
chiesto un immediato intervento medico da parte delle vicine autorità maltesi e
il trasferimento all’ospedale della bambina con la madre. Al momento del trasbordo
i maltesi hanno chiesto agli spagnoli che intenzioni avessero e gli spagnoli si
sono allontanati, perché avevano già chiesto alla guardia costiera di Roma che
gli venisse assegnato un porto di sbarco.
Secondo
la procura, però, l’ong spagnola avrebbe dovuto chiedere alle autorità maltesi
di sbarcare tutti i 218 migranti, soccorsi il giorno precedente. In effetti il
capitano e la coordinatrice hanno confermato di non aver chiesto lo sbarco a
Malta, come da prassi. “Non eravamo mai sbarcati a Malta in passato”, hanno
risposto i due indagati. “Abbiamo seguito il normale protocollo”, ha
sottolineato Riccardo Gatti, portavoce dell’organizzazione. “Inoltre la guardia
costiera di Roma ci ha chiesto, come prevede il codice di
condotta, di chiedere al governo spagnolo (stato di bandiera della
nave) di fare richiesta di un porto di sbarco al governo italiano”, ha aggiunto
Gatti. Oscar Camps, fondatore di Proactiva, ha ribadito che deve essere la
Centrale operativa della guardia costiera di Roma a determinare il porto di
sbarco e a comunicarlo: “Questa responsabilità non può essere scaricata su
altri fino a quando sarà la Centrale operativa di Roma a svolgere il
coordinamento dei soccorsi”.
Per
Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato della clinica dei diritti dell’università
di Palermo e consulente della difesa della Open Arms, Malta non ha una vera e
propria zona di ricerca e soccorso, ma da anni dipende dal coordinamento
italiano. “Malta inoltre non ha mai sottoscritto alcuni articoli della Convenzione
di Amburgo del 1979 e della Convenzione
Solas: queste norme prevedono che lo sbarco avvenga nel paese che ha
coordinato i soccorsi, e da sempre in quel tratto di mare i soccorsi sono stati
coordinati dall’Italia. Quindi per il diritto internazionale e per la prassi è
sempre avvenuto che i soccorsi coordinati dall’Italia avessero assegnato un
porto di sbarco italiano”.
Perché
gli spagnoli non hanno riconsegnato i migranti ai libici?
Il 15
marzo durante l’ultimo salvataggio a 73 miglia dalla costa libica, quando le
lance della nave spagnola Proactiva Open Arms avevano già cominciato a
soccorrere un gommone carico di almeno cento migranti, quasi tutti eritrei, è
arrivata sul posto una motovedetta della guardia costiera libica. I guardacoste
si sono avvicinati a tutta velocità e hanno ordinato agli spagnoli di
consegnare i migranti, altrimenti avrebbero aperto il fuoco sugli umanitari. Un video
diffuso dall’ong documenta questo momento. I libici hanno calato in
mare anche dei gommoni e sono saliti su una delle lance spagnole.
Questa
situazione di stallo è durata un paio d’ore. Dieci migranti che erano ancora
sul gommone, spaventati dall’idea di essere consegnati ai libici, si sono
buttati in acqua. La guardia costiera italiana non ha mai chiesto agli spagnoli
di consegnare i migranti ai libici, ma gli ha chiesto di lasciare il campo alla
guardia costiera libica per soccorrere quelli che erano ancora nel gommone. “Ci
sono normative internazionali che proibiscono la deportazione e il
respingimento diretto. Il salvataggio finisce quando le persone vengono
lasciate in un posto sicuro, che può essere anche una nave, ma deve essere
sicuro”, ha detto Gatti. “Non possiamo fidarci della guardia costiera libica,
che ci aveva già attaccati in altre tre occasioni: una volta ci ha minacciato,
un’altra ha sparato colpi in aria e una terza ci ha sequestrato per ore”.
Inoltre,
ricorda il senatore Luigi Manconi, numerosi rapporti dell’Onu hanno documentato
le violenze e le torture della guardia costiera libica contro i migranti e dei carcerieri
nei centri di detenzione libici. “La presenza dei libici ha creato
il panico”, ha spiegato Oscar Camps. Tanto che i migranti si sono buttati in
acqua, ha concluso. “Raccogliamo di continuo storie di migranti che sono stati
torturati e hanno subito violenze di ogni tipo in Libia”, afferma Fulvio
Vassallo Paleologo. “L’ultima vicenda del migrante eritreo Segen, rinchiuso per
un anno e mezzo in un centro in Libia e morto di denutrizione qualche giorno
fa, è una conferma delle condizioni dei centri di detenzione”.
Paleologo
spiega che sarebbe stata una grave violazione del diritto internazionale
riconsegnare ai libici i migranti: “In questa circostanza una parte dei
migranti era già sui gommoni dell’ong Proactiva Open Arms. Riconsegnarli ai
libici sarebbe stato un respingimento collettivo, una grave violazione
dall’articolo 4 del quarto protocollo della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo”.
Perché la
guardia costiera italiana ha chiesto all’ong di contattare la Spagna?
Per la
prima volta il 15 marzo l’Italia ha chiesto alla nave dell’ong spagnola di
chiamare le autorità del suo stato di bandiera per chiedere un porto di sbarco.
Nel codice di condotta, sottoscritto dalla Proactiva a luglio, è previsto
“l’impegno” a informare lo stato di bandiera dei soccorsi che si stanno
operando, ma questa comunicazione non è obbligatoria, afferma il senatore Luigi
Manconi ricordando che il codice di condotta stipulato dal ministero
dell’interno con alcune organizzazioni umanitarie non ha il valore di una
legge, bensì “ha una natura pattizia”. “Io non credo che ci sia stata una
violazione. Ma anche se fosse stato violato il codice di condotta, si
tratterebbe non di un reato, ma di una violazione dell’accordo tra due parti,
un patto che non ha nessun valore di legge”, ha concluso Manconi.
Esiste
un’area di ricerca e soccorso controllata dalla Libia?
La
procura di Catania accusa il capitano della nave spagnola Marc Reig Creus e la
capomissione Anabel Muntes Mier di aver deciso arbitrariamente di continuare la
ricerca e poi il soccorso dei migranti nonostante la guardia costiera libica
avesse assunto il comando dell’operazione, chiedendo esplicitamente e per
iscritto di non volere nessuno nella zona, per garantire la sicurezza delle
fasi di soccorso. La procura dà per scontato che tutte le operazioni siano avvenute
in acque di ricerca e soccorso libiche. Ma esistono acque di ricerca e soccorso
libiche? E in base a quale accordo sono state determinate?
Nel
luglio del 2017 la Libia ha chiesto all’organizzazione marittima internazionale
(Imo) l’assegnazione di un’area di ricerca e soccorso, ma questa richiesta è
stata ritirata nel dicembre del 2017. Spiega l’avvocato della difesa Alessandro
Gamberini: “La Libia non ha mai risposto alle richieste di chiarimenti che gli
erano state fatte dall’Imo, per questo non dispone di una propria area di
ricerca e soccorso né di una centrale operativa per i soccorsi, quindi è
illegittimo destinare ai libici il coordinamento di una funzione di soccorso.
Il soccorso è regolato dalla Convenzione di Amburgo del 1979 e in base a queste
leggi internazionali non può essere affidato ai libici”.