Iraq, le vedove dell’ISIS sotto processo: giustizia o vendetta?
Cristin
Cappelletti, L’Indro, su 31 maggio 2018
Per
capire come vede il Diritto Internazionale i processi iracheni alle vedove
dell’Isis abbiamo intervistato Marina Mancini, Professore Associato di Diritto
Internazionale presso l'Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria
e Docente di Diritto Internazionale penale presso l’Università Luiss a Roma
A più di
un anno dalla sconfitta
dell’Isis in territorio iracheno, Baghdad cerca giustizia
processando le moglie degli ex membri dello Stato Islamico. Sarebbero più di
1000 le donne che in questo ultimo anno sono state messe sotto accusa e
sottoposte ad un processo. Dall’estate del 2017, secondo il ‘New York
Times’, più di 10.000 casi sono stati portati davanti alla corte. Ad
oggi, 2900 sono stati completati, con un tasso di condanna del 98%.
La
velocità con cui il Governo iracheno ha cominciato a fare piazza pulita delle
donne e degli uomini coinvolti in qualche modo con le azioni dello Stato
Islamico ha fatto fortemente dubitare la comunità internazionale sull’equità e
la legalità di questi processi sommari. Sarebbero 1,350 le donne straniere collegate
all’Isis assieme a 580 bambini tuttora presenti in Iraq. Nonostante alcuni
Paesi, come l’Arabia Saudita, abbiano chiesto l’estradizione delle ‘loro donne’
perché vengano processate in Patria, altri come Regno Unito e Francia si sono
mostrati riluttanti nel riprendere in caso le foreign fighters che avevano
attraversato mezza europa per unirsi ai miliziani dell’Isis.
Mentre
l’Iraq cerca giustizia, molti dubbi sorgono riguardo agli standard applicati
dal Governo iracheno nel processare le vedove dello Stato Islamico. Belkis
Wille, ricercatrice senior per l’Iraq per Human Rights
Watch, ha dichiarato che «quello che mi preoccupa di più è che in
questi processi il sistema è fondamentalmente pregiudicato contro gli individui
stranieri. La presunzione è che, solamente perché tu sei straniero, ed eri nel
territorio dell’ISIS, non c’è bisogno di altre prove»
Oltre
alla leggerezza con cui il Governo sta applicando pene di morte dopo processi
di dieci minuti, emergono, da un rapporto di
Amnesty International, anche casi di violenza sessuali su donne con
presunti, e non verificati, legami con l’ISIS, rifugiate in campi
profughi iracheni. «La guerra contro lo Stato Islamico in Iraq può essere
finita, ma le sofferenze degli iracheni è lontana dall’essere terminata. Le
donne e bambini/e iracheni con presunti legami con l’ISIS sono puniti per
crimini che non hanno commesso» ha commentato Lynn Maalouf, Direttore del
Centro di Ricerca per il Medio Oriente di Amnesty International.
Per
approfondire e far luce sulla legittimità di tali processi da parte del Governo
iracheno e sui doveri della comunità internazionale abbiamo intervistato Marina
Mancini, Professore Associato di Diritto Internazionale presso l’Università
degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria e Docente di Diritto Internazionale
penale presso l’Università Luiss a Roma.
Dal punto
di vista del diritto internazionale è legittimato l’Iraq nel portare avanti
tali processi?
Innanzitutto
dobbiamo distinguere i reati comuni previsti dalla legislazione irachena, da
crimini internazionali, riconosciuti dal diritto internazionale, il quale poi è
attuato in Iraq. I tribunali iracheni hanno sicuramente competenza a processare
e punire gli individui che abbiano commesso reati comuni o crimini
internazionali sul territorio iracheno che siano stati commessi su soggetti
iracheni. Questi sono i tradizionali collegamenti, la nazionalità del reo, la
nazionalità della vittima è il cosiddetto locus commissi delicti, ovvero il
luogo dove è stato commesso il delitto. Il fatto che le donne o gli uomini
dell’Isis abbiano una nazionalità straniera non preclude assolutamente un
processo nei loro confronti da parte dei tribunali iracheni nella misura in cui
abbiano commesso crimini in Iraq nei confronti di soggetti iracheni.
In quali
modalità si stanno svolgendo i processi alle vedove dell’Isis?
Si tratta
sicuramente di processi che presentano delle carenze sotto il profilo dei
principi del giusto processo. La comunità internazionale è intervenuta
attraverso le Nazioni Unite sotto due profilo. È presente una missione dell’Onu
in Iraq, l’UNAMI, che ha trai suoi
compiti quello di promuovere la tutela dei diritti umani tra cui vi è anche il
diritto fondamentale ad un equo processo e di rafforzare lo stato di diritto.
Inoltre su espressa richiesta del Governo iracheno a settembre scorso il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha istituito un team investigativo
che dovrà essere composto da giudici, procuratori iracheni, ma anche
internazionali, allo scopo di raccogliere prove dei crimini commessi dai membri
dello Stato Islamico. Crimini e prove che poi potranno essere utilizzate nei
processi a loro carico. Si tratta di un team investigativo che dovrà essere
guidato da un consigliere speciale; il Consiglio di Sicurezza ha dato mandato
al Segretario Generale delle Nazioni Unite a provvedere alla creazione di
questo team cominciando dalla definizione delle linee guida che il team deve
seguire. Queste linee guida sono state formulate dal Segretario Generale e
trasmesse al Consiglio di Sicurezza il febbraio scorso. Si tratta di un
meccanismo che è stato creato su richiesta del Governo iracheno, il quale ha
chiesto l’assistenza della comunità internazionale nel processare e punire i
membri dell’Isis responsabili di numerose atrocità.
Amnesty
International ha riportate diversi casi di abusi sessuali da parte di soldati
iracheni a donne con presunti legami con l’Isis. Come si sta muovendo la
comunità internazionale per proteggere queste vittime?
Va fatto
innanzitutto un chiarimento a livello generale. Le donne che si sono unite
all’Isis in quanto mogli, sorelle, parenti dei miliziani possono essere state
esse stesse vittime di reati e crimini da parte dei loro stessi congiunti nella
misura in cui siano state indotte e indottrinate a compiere atti che altrimenti
non avrebbero commesso. È noto, sulla base dei resoconti delle donne Yazidi
schiavizzate dai membri dell’ISIS, che le loro mogli accettavano la loro
presenza in locali annessi alla loro abitazione, le picchiavano, le obbligavano
a compiere lavori domestici e in nessun modo ostacolavano i loro mariti nel’
tenere queste donne in stato di schiavitù queste donne e possiamo quindi
ritenerle complici. È estremamente importante che coloro che sono chiamati a
giudicare queste donne valutino con attenzione il loro grado di adesione
psicologica all’Isis e il loro grado di partecipazione materiale alle atrocità
commesse. Altra questione è quella delle violenze e degli abusi di cui queste
donne possono essere state vittime, o lo sono tuttora, nelle carceri e nei
campi profughi iracheni. Anche qui spetta ai tribunali iracheni processare e
punire le eventuali guardie carcerarie che si sono rese responsabili di
violenze nei confronti di queste donne. Dal momento che il sistema giudiziario
iracheno è gravemente carente sotto il profilo del rispetto degli standard di
tutela dei diritti fondamentali connessi, proprio nell’esercizio del potere
giudiziario non si possono che avanzare dei dubbi a questo proposito. La
comunità internazionale attraverso quella della sua massima organizzazione, le
Nazionai Unite si è mossa già da tempo, negli anni passati mediante il rinvio
dell’UMAMI e più recentemente attraverso la creazione di questo team
investigativo che dovrebbe supportare le autorità giudiziarie irachene nella
repressione dei crimini commessi. Per quanto riguarda eventuali reati commessi
nei confronti delle donne irachene, l’UNAMI ha tra le sue funzioni ha anche
quella, appunto, di sostenere le strutture giudiziarie irachene.
Che cosa
accadrà ai centinaia di bambini strappati alle madre incarcerate o condannate a
morte?
Anche in
questo caso il sistema giudiziario conforme agli standard internazionali
dovrebbe assicurare un’adeguata tutela di questi bambini perché non
dimentichiamo che esistono i diritti dei fanciulli, e questi diritti rientrano
anch’essi tra i diritti umani fondamentali. Naturalmente le notizie di stampa
non sono rassicuranti. Centinaia di donne recluse nelle carceri irachene con
bambini al seguito. Possiamo immaginare che le condizioni non siano delle
migliori, desta preoccupazione il fatto che l’iraq preveda la pena di morte e
la applichi. L’alto commisario delle enazioni unite per i diritti umani più
volte ha deprecato l’utilizzo generalizzato della pena di morte.