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Uganda. Donne combattenti: la testimonianza di Agnes Acayo

Di
Cecilia D’Abrosca, Nena News, 26 mar 2018

La
testimonianza di una ex soldatessa del Lord’s Resistance Army che come tante
altre donne è stata abbandonata dallo Stato ed emarginata dalla
società. I programmi ugandesi di reinserimento riproducono
un’ideologia sessista

Donne
ugandesi

Roma – Agnes Acayo è un’ex-soldatessa del “Lord’s
Resistance Army”,  l’esercito non governativo ugandese. All’età di 9 anni,
dopo esser stata rapita, è iniziata alla vita militare, divenendo una
bambina-soldato. Oggi ha trent’anni, tre figli e vive nel nord dell’Uganda in
complicate condizioni di vita. Di recente, ha denunciato l’atteggiamento del
governo del suo Paese, per il mancato inserimento nel tessuto sociale ed
economico di donne combattenti, accomunate dal medesimo passato.
Agnes
Acayo è portatrice di una esperienza di prigionia recente. Ciò che sta
chiedendo alla vita è una seconda via, che non la induca a dover “combattere”
per poter mangiare, per aver accesso all’assistenza sanitaria, per mandare i
figli a scuola. Vi è il riconoscimento, da parte sua, che il programma
governativo di re-integrazione delle ex-combattenti abbia fallito. A ciò
aggiunge la difficoltà di vivere in equilibrio sulla scia di un trascorso
emotivo di dolore, la discriminazione sociale e il rifiuto da parte della
comunità di origine, che etichetta queste donne come “assassine”.
Chiara è
la posizione degli studiosi, i quali evidenziano che la natura dei programmi
politici ugandesi, in tema di reinserimento, riproducano e poggino su
un’ideologia sessista, imperniata sulla mentalità, secondo la quale, le donne,
a differenza degli uomini, non sono obbligate a far parte di un esercito, di
conseguenza non hanno titolo a ricevere alcuna somma di denaro. 
“È
difficile far fronte alla vita – dice Agnes Acayo – Noi (ex-combattenti) ci
sentiamo emarginate e abbandonate. Continuo ad avere brutti pensieri, come
ritornare nella foresta o uccidermi. Faccio ogni tipo di lavoro per pagare la
scuola ai miei figli, l’affitto di casa e le cure mediche. Al contrario di ciò
che mi era stato detto, il governo non mi ha assistito in alcun modo, ciò che
ho ottenuto finora è un certificato di amnistìa e un ‘pacchetto’ di
reintegrazione”.  
Mancano i
mezzi finanziari a re-inserire le ex-donne soldato, dichiara Peter Onega, capo
dell’Uganda Amnesty Commission, che aggiunge: “Le vittime di stigmatizzazione,
come nel caso delle donne del Lord’s Resistance Army,  si rifugiano in
ogni sorta di pensiero negativo, che va dall’esercizio della violenza contro se
stesse all’idea di ritornare a combattere”. I “ribelli” in attesa di
reintegrazione sono circa 28.000 – quasi la metà è rappresentata da
ex-combattenti dell’Lra – cui è stata concessa l’amnistìa a partire dall’anno
2000.
Agnes
Acayo testimonia la sua storia esprimendosi anche attraverso queste parole:
“Quando la comunità sa della tua vita passata, i suoi membri puntano il dito,
ricorrendo a questi appellativi: ribelle, assassina, ribelle, assassina. Lo
stesso accade ai nostri figli, che non possono giocare con gli altri bambini e
sono visti come un ‘peso’, addirittura come una maledizione che colpisce la
società”. E continua: “Io non volevo entrare a far parte dell’Lra. Sono stata
catturata con l’inganno, con la promessa di un lavoro come babysitter, ma dopo
un anno iniziai a combattere. Se non avessi sparato, mi avrebbero uccisa”.
Acayo ha
combattuto in Uganda e in Sudan. Compiuti i quattordici anni, è costretta a
sposare uno dei militari, un uomo di sessant’anni. All’inizio si rifiuta ma
viene picchiata più volte, alla fine cede e si sposa. Per sei anni i due
vivranno come marito e moglie, fino a quando lui viene ucciso e lei scappa con
i figli. Durante la fuga incontra dei combattenti arabi che la aiutano a
raggiungere Juba, poi Save the Children la condurrà a Khartoum.
Riconquistata
la libertà, la gioia di ritornare a casa è infinita, ma Agnes riceve una
notizia drammatica: i genitori sono stati uccisi e lei non è accettata nel
villaggio, che la considera un’assassina; l’unica cosa da fare è andare via.
È una
storia comune, dice Mahlet Woldetsadik, ricercatrice del Pardee RAND Graduate
School della California, che sta lavorando ad un progetto di ricerca sulle
donne in Gulu. Ha intervistato oltre cinquanta donne, ricostruendone le storie
di vita e le esperienze di prigionia, dichiarando: “Molte sopravvissute
continuano ad affrontare delle forti sfide, inclusi i disagi psichici collegati
a quel tipo di situazione estrema: questioni legate alla terra, ai figli nati
dalla violenza, alla difficoltà di tornare nelle comunità e presso le famiglie”,
dice. “Quelle che hanno scelto di non avere una relazione sentimentale,
accettano la prova più grande, ossia provvedere a se stesse dal punto di vista
economico e giuridico, dal momento che non è facile per loro trovare un
lavoro  o avviare un proprio business”.