Le conseguenze pratiche dell’apolidia: l’emblematico caso dei Rohingya
Regina Catrambone 16/02/2018 |
Fin dalle prime fasi dell’esodo dei Rohingya in fuga dalle persecuzioni in Myanmar verso il Bangladesh, ho sottolineato l’importanza della loro condizione di apolidi nell’approccio alla questione.
Nel mezzo di una migrazione biblica le priorità si concentrano solitamente sulle necessità pratiche, ma una riflessione sull’apolidia come condizione che aggrava ulteriormente la disperata situazione di questa minoranza perseguitata è necessaria.
L’UNHCR stima che al mondo ci siano almeno 10 milioni di apolidi, di cui circa 1/3 sarebbero bambini, ma i dati ufficiali ne riportano molti meno perché spesso gli stati sono riluttanti a registrarli. Gli apolidi finiscono così per diventare dei fantasmi sullo sfondo delle vite altrui, facili vittime di segregazioni e marginalizzazioni, bersaglio di abusi da cui stentano a difendersi mancando gli strumenti per farlo.
L’UNHCR ha un mandato specifico per tutelare gli apolidi e metter fine a questa condizione entro il 2024 con una campagna della durata di 10 anni cui si accompagnano varie altre misure, fra cui un Good Practices Paper-Action 7 e gli obiettivi di sviluppo del millennio.
Fra questi ultimi va ricordato l’obiettivo 16 (SDG 16) che si concentra su giustizia, buona governance e promozione di società inclusive e pacifiche, riportando l’attenzione sulle minoranze o i gruppi marginalizzati e riconoscendo che “è possibile raggiungere uno sviluppo sostenibile solo se tutte le persone, inclusi gli apolidi, hanno accesso alla giustizia e sono in possesso di una identità giuridica”.
Un apolide è “una persona che nessuno Stato considera come suo cittadino per applicazione della sua legislazione” e l’apolidia deriva da molte cause, fra cui vale la pena ricordare il mutamento delle frontiere nazionali, la condizione di profughi o sfollati o il mancato riconoscimento da parte di uno stato che discrimina determinate comunità o minoranze al suo interno.
Nel caso della minoranza musulmana Rohingya in Myanmar si tratta proprio di quest’ultima fattispecie che, però, potrebbe drammaticamente intrecciarsi col secondo fattore in quanto, fuggendo in Bangladesh, hanno perso anche gli eventuali documenti di cui erano in possesso.
Per i Rohingya, l’apolidia deriva dall’esclusione dai 135 gruppi etnici riconosciuti con la legge di cittadinanza del 1982 e non ha significato soltanto emarginazione, esclusione e condanna ad una mera sopravvivenza, ma ha impedito praticamente l’accesso all’istruzione scolastica, al sistema sanitario e alle cariche nell’amministrazione pubblica.
Inoltre, i Rohingya non solo non potevano accedere a incarichi pubblici, ma erano anche fortemente limitati nello svolgimento delle proprie mansioni lavorative a causa delle arbitrarie restrizioni alla loro libertà di movimento.
Come ha messo in evidenza il report dell’organizzazione sorella di MOAS, XChange, molti hanno vissuto impedimenti e ostacoli anche nel raggiungimento del posto di lavoro e questo ha alimentato un circolo vizioso.
Un report in particolare, redatto da una commissione presieduta da Kofi Annan, ha vagliato le diverse difficoltà vissute da tutti i gruppi etnici nello Stato di Rakhine rispetto alla loro partecipazione alla vita pubblica e ad una conseguente carenza di rappresentanza politica, ma quelli che ne fanno maggiormente le spese sono i musulmani e le donne che vivono qui.
Stando al report, pertanto, “Il governo del Myanmar deve agire per promuovere la rappresentanza e la partecipazione a livello locale per i gruppi poco rappresentati, fra cui minoranze etniche, apolidi, sfollati e donne; aumentare l’impegno nei confronti dei cittadini e costruire un legame di fiducia con le comunità locali; migliorare la partecipazione della società civile nella definizione e attuazione delle politiche”.
In un contesto così fragile, la fuga in massa ha solo aggravato la situazione e il rischio è che i numeri esorbitanti di arrivi, che si sovrappongono agli insediamenti degli esodi precedenti, rendano impossibile una gestione razionale degli stessi col risultato che nemmeno i nuovi nati potranno affrancarsi da questa condizione.
Ma fondamentale è anche la sensibilizzazione su questo tema per far comprendere come la registrazione di un nuovo membro della famiglia sia un passo necessario per il suo riconoscimento all’interno della società e “un modo fondamentale per confermare o acquisire la cittadinanza“, oltre all’abbattimento di eventuali ostacoli, quali difficoltà a raggiungere i punti preposti per la registrazione delle nascite o il pagamento di somme in denaro.
Questi ultimi ad esempio erano di particolare rilievo per i rifugiati siriani in Giordania, fra cui la percentuale di registrazione delle nascite è notevolmente aumentato dopo l’eliminazione delle tasse connesse e la semplificazione delle procedure per chi ricorreva a una registrazione tardiva.
Anche in Bangladesh si è lavorato concretamente per migliorare il processo di registrazione e i risultati sono stati positivi, dimostrando delle sinergie proficue con altri settori fra cui quello sanitario e scolastico.
Proprio i medici, le ostetriche e il personale delle strutture sanitarie svolgono un ruolo essenziale per informare i neogenitori in merito alle procedure di registrazione dei propri figli, compiendo il primo passo di un lungo percorso di acquisizione dei propri diritti estremamente significativo per la minoranza Rohingya, considerata la più perseguitata al mondo.