Non si può morir di amore…
A Stefania piaceva scrivere e utilizzava la scrittura per raccontare ciò che le stava a cuore, come l’impegno nel movimento studentesco, la difesa dei diritti, il suo essere donna.
Stefania scriveva poesie e articoli che firmava come Sen. Poche ore prima che il suo ex fidanzato la uccidesse a coltellate perché la loro storia era finita e lei voleva lasciarlo, aveva lasciato questo messaggio: “Ciò che non si può dire in poche parole, non si può dire neanche in molte”.
Per quanto difficile, proveremo a definire i contorni di una storia che coinvolge persone che non conosciamo ma alle quali ci sentiamo di esprimere la nostra vicinanza, prima fra tutte Stefania, poi i suoi amici e la sua famiglia. Proveremo anche a riflettere su questa vicenda non lasciando che sia la cronaca o gli atti giudiziari a far sì che l’attenzione si sposti da Stefania a Loris, perché come ogni volta accade, la vittima scompare agli occhi di tutti e il mostro viene sbattuto in prima pagina.
Stefania era una ragazza di 24 anni, non molto diversa da chi scrive. Faceva l’università e aveva mille interessi.
Stefania, come molte di noi, era una ragazza precaria e contro questa sua condizione scendeva in piazza e si organizzava. Stefania era consapevole di essere una donna, e non solo in termini biologici, conosceva le gabbie del mondo del lavoro, le lettere di licenziamento in bianco, i lavori part-time pensati per le donne, la difficoltà ad essere assunta per paura di assenze e congedi. Sapeva perfettamente che ogni giorno l’oppressione per una donna significa fare i conti con se stessa e con l’utilizzo strumentale che viene fatto del proprio corpo. Si ribellava contro la dicotomia donna-madre, contro i fondamentalismi della religione ma anche contro la mercificazione dei corpi nella politica, nella pubblicità e nella televisione, contro i falsi moralismi e contro le carceri mentali in cui viene segregata ogni forma di diversità. Scriveva: “No, non mi fanno paura i gay, le lesbiche, i/le trans, i bisex, i neri, i gialli, i rossi, gli alieni… gli stupidi mi fanno paura. Soprattutto se inconsapevoli e presuntuosi”.
Conosceva la violenza sulle donne, sapeva come agisce, che ricatti utilizza, quali sono i moventi dietro i quali si nasconde. Sapeva anche che la maggior parte delle donne subisce violenza e trova la morte proprio da chi non se l’aspetta, un familiare, un convivente, un ex marito o compagno.
Sembra strano, eppure Stefania è morta esattamente come sono morte le altre 139 (e oltre) solo nel 2011 in Italia e come le altre donne non è riuscita a salvarsi prima. Questa storia è esemplificativa e in questi primi giorni del 2012 ricordiamo Stefania per ricordare tutte quelle che, come lei, sono state ammazzate o picchiate, stuprate o segregate. In lei troviamo tratti comuni a tutte le storie di violenza che conosciamo.
C’è sempre qualcuna intimamente convinta che la violenza sulle donne non la riguardi da vicino o che venga a manifestarsi solo quando in qualche modo “ci si caccia nei guai”… una persona violenta, un amore sbagliato, avvisaglie che potevano lasciar presagire o peggio ancora uno stile di vita libero … Come se tutte quelle che fino ad ora “ci sono cadute” soffrano di una banalissima sindrome da buona fede o siano poco forti e determinate. Il più delle volte, invece, ci siamo trovate a conoscere le “vittime” della violenza, abbiamo riconosciuto donne forti e coraggiose, molto spesso consapevoli di ciò che le stava accadendo e quasi mai rassegnate a continuare a subire. Abbiamo visto referti, querele, ordini di allontanamento. Le abbiamo viste cambiare amicizie, cambiare abitudini, a volte addirittura cambiare casa. Sono le donne che oggi lottano due volte contro la violenza: lottano contro i loro aguzzini e lottano contro questo stato che le rende invisibili per poi “riconoscerle” solo dopo la morte. Come può essere considerato questo un “affare privato”? In Italia i tagli al welfare hanno portato i centri anti violenza a chiudere i battenti uno dopo un altro in quanto il governo ha delegato il problema ai centri locali, i quali a loro volta non finanziano le strutture e chi ci lavora. Quelli che resistono sono veramente pochissimi rispetto all’utenza che gli si rivolge, donne che hanno bisogno di pronti interventi legali, psicologici, orientamento al lavoro, rifugi perché stanno scappando dalle proprie case o semplicemente una prima accoglienza. Una crisi che non abbiamo generato noi, ma chi ci governa e chi li finanzia, ha fatto si che sempre gli stessi soggetti debbano pagare in termini di smantellamento dei diritti. Questa crisi non è neutra, come abbiamo più volte detto, perché la conseguenza a questa politica di austerity sarà un carico ancora maggiore per le donne, ancora le prevalenti valvole di ammortizzatore sociale nel nostro paese. Allora finirà che una donna a casa è una donna più utile di una donna che lavora, perché si può occupare dei bambini, degli anziani, dei malati e di tutto ciò a cui lo stato non pensa. Sarà più semplice oggi permettere licenziamenti di massa e chiusura di fabbriche e indotti con lavoro prevalentemente femminile. Guardiamo quello che è successo alla OMSA, che chiude improvvisamente lo stabilimento di Faenza per riaprire in Serbia. 239 lavoratrici a casa! Nello stesso momento si innalza l’età pensionabile (per chi la vedrà la pensione!).
Violenza, precarietà e assenza di diritti vanno di pari passo e si alimentano a vicenda. L’unico modo per reagire è quello di intervenire immediatamente, mediante reti di donne, sportelli e centri di aiuto. In Campania, ad esempio, dove la situazione dei fondi al terzo settore già era fortemente martoriata, arriva la notizia dello stanziamento dei fondi europei, ben 10 milioni di euro destinati alle donne napoletane ma nelle mani della Regione. Fondi bloccati, fondi persi a causa delle guerre di un potere machista che preferisce l’annientamento a zero di bacini di posti di lavoro, servizi e strutture per inseguire le proprie ripicche elettorali.
Cosa ci rimane? La resistenza degli spazi, la condivisione delle pratiche, il confronto tra le soggettività. Il compito di tutte e tutti noi, inoltre, è quello di intervenire in anticipo e far si che agli uomini così come alle donne vengano proposte delle alternative, quanto meno culturali, utili a sconfiggere il sessismo e il machismo dilagante nella nostra cultura a tutti i livelli, in tutti gli ambienti sociali. La storia di Stefania ci insegna inoltre che non esistono “spazi liberati” da queste forme di oppressione per il solo fatto che siamo noi stessi a definirli tali. Ci indica invece che la strada è quella dell’unità delle lotte e la costruzione di una contro cultura antifascista e antisessista, in cui il femminismo è per noi è una pratica e non il fine ultimo. Prendersi cura degli spazi e dei percorsi di lotta equivale e far si che l’antisesissimo e l’antimachismo non siano parentesi tra le “varie e le eventuali” che o si danno per scontate o per lotte perse in partenza.
Partendo da queste considerazioni vogliamo ricordare Stefania, e visto che nessuna discussione nasce e finisce su un foglio scritto, vogliamo incontrarci con tutte e tutti quelli che credono nell’importanza dell’antisessismo e nella costruzione delle lotte comuni.
Francesca Tramontana
Project Manager Promosaik