Il 10 novembre, ad Avenza, frazione di Carrara, si svolgerà una sobria cerimonia per dedicare un giardino pubblico alla memoria di Elena Guadagnucci, nativa di quel borgo: una delle almeno 393 vittime dell’eccidio nazifascista di Sant’Anna di Stazzema, compiuto il 12 agosto 1944.
Non è cosa di scarso rilievo, tanto più se si considera che Elena era una persona “comune”; in realtà, una donna assai coraggiosa, che aveva scelto di dare alla luce e prendersi cura del piccolo Alberto: figlio “illegittimo” − come si diceva a quel tempo − poiché nato da una relazione “clandestina” e mai riconosciuto dal padre.
Se il ricordo di Elena è potuto emergere è anche per merito del nipote che lei non ha mai conosciuto: Lorenzo Guadagnucci, il quale da alcuni anni rivolge buona parte del suo impegno alla ricostruzione della memoria di quel crimine orrendo. Lo ha fatto anche con un libro, Era un giorno qualsiasi (Terre di Mezzo, 2016), un’opera rigorosa quanto intensa, tutt’altro che convenzionale, non solo perché il suo autore non è uno storico di professione.
Giornalista, blogger, saggista, egli è tra i fondatori e attivisti del Comitato verità e giustizia per Genova nonché di Giornalisti contro il razzismo. Ed è in quanto giornalista che nel 2001, durante il G8 di Genova, si trovò nella Scuola Diaz al momento della violenta irruzione della polizia, di cui subì pesanti conseguenze. Su questa vicenda ha pubblicato Noi della Diaz (Terre di mezzo, 2008) e, con Vittorio Agnoletto, L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova(Feltrinelli, 2011). E’ anche antispecista e vegano: sul tema del rispetto e dei diritti dei non–umani ha scritto Restiamo animali (Terre di mezzo, 2012).
Era un giorno qualsiasi non è una consueta ricostruzione storiografica, se non altro perché l’autore sceglie come io narrante suo padre, che all’epoca dell’eccidio aveva appena dieci anni e che solo per caso, per un atto di disubbidienza verso la madre, riuscì a scampare alla strage.
Non è l’unico elemento di tragica fatalità in questa vicenda: fu in quanto sfollati che Elena e il suo bambino raggiunsero questo piccolo borgo dell’Alta Versilia, nel comune di Stazzema, in provincia di Lucca. Vivevano, infatti, a Fiumetto, frazione del comune di Pietrasanta, sul litorale toscano.
Ricordiamo che a quel tempo, costituendo la Versilia il fronte occidentale della Linea Gotica, era occupata da un’intera divisione di Waffen–SS, braccio militare delle SS, che reagiva alle azioni delle brigate partigiane con atroci rappresaglie contro le popolazioni civili.
Tra la fine di giugno e i primi di luglio del 1944 era arrivato l’ordine, per tutti i civili di quella parte del litorale toscano, di abbandonare le proprie case per spostarsi verso le colline. Così, dopo un primo tentativo infruttuoso, Elena e Alberto riuscirono a trovare ospitalità in questo villaggio di collina, calmo e appartato, nel quale altri civili si erano rifugiati.
Non sono poche le opere storiografiche dedicate a tale eccidio. Tuttavia, l’originalità del libro di Guadagnucci risiede nella struttura narrativa, che gli permette di coniugare testimonianza e storia, passato e presente, oggettività e soggettività.
Egli, infatti, s’immedesima nel padre; per meglio dire, si sdoppia, poiché, pur utilizzando alcune memorie scritte dal genitore sulla strage, sulla propria infanzia e giovinezza, in realtà parla anche di se stesso: per esempio, della “macelleria messicana” che si compì a Genova. E a tal proposito fa dire al padre che l’interesse del figlio per il massacro di Sant’Anna di Stazzema “è piuttosto recente. Nel 2001 ha vissuto un’esperienza scioccante, per certi aspetti simile alla mia e della mamma. Si è trovato all’interno della scuola Diaz, durante il G8 di Genova (…). E’ un fatto che ha cambiato la sua vita…(…)” (p. 40).
Ed è perfettamente se stesso, anche se parla a nome del padre, allorché rimarca che i tedeschi non solo sterminarono una moltitudine di donne, anziani e bambini, ma “uccisero e bruciarono anche tutti gli animali che trovarono: pecore, mucche, galline, conigli, capre” (p. 81).
A tal proposito, in forma di dialogo col padre–io narrante, Lorenzo gli/si chiede: “E se la sorte riservata agli animali fosse la chiave di tutto?” (p. 81). Aggiungendo: “In guerra i nemici sono come gli animali in tempo di pace (…), che si possono annientare senza rimorso” (p. 83)”. “Nei loro confronti − conclude − tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno” (p. 84).
Com’è ben noto, quello di Sant’Anna di Stazzema è stato uno degli eccidi più atroci compiuti dai nazisti durante la ritirata, in tal caso con l’appoggio decisivo dei fascisti. Il 12 agosto 1944, in poco più di mezza giornata, le SS massacrarono, come si è detto, almeno 393 persone, compresi 116 minori di diciott’anni, in gran parte bambini, perfino una neonata di appena venti giorni.
Allorché, all’alba, le SS giunsero a Sant’Anna, guidate da fascisti della 36ª Brigata Mussolini, travestiti con divise tedesche, gli uomini del paese si erano rifugiati nei boschi per non essere deportati, mentre le donne, i bambini e gli anziani, in buona parte sfollati anch’essi, restarono nelle loro case, pensando che a loro non potesse accadere alcunché di male.
E, invece, i nazisti rastrellarono i civili, li imprigionarono nelle stalle o nelle cucine delle case, infine li uccisero con bombe a mano e colpi di rivoltella o di mitra. A tutti moribondi fu dato il colpo di grazia, i cadaveri furono cosparsi di benzina e bruciati. L’obiettivo era distruggere il paese e sterminarne la popolazione per spezzare eventuali contatti tra i civili e le formazioni partigiane della zona.
Eppure “Non c’è mai stata una Norimberga italiana”, sottolinea amaramente l’autore. Ed è tragicamente vero. In realtà, per questo crimine orrendo ci furono, sì, dei processi, sebbene assai tardivi, ma nessuna pena effettiva.
Ben sessant’anni dopo l’eccidio, nel 2004, il Tribunale Militare di La Spezia aprì il processo per la strage: cioè un decennio dopo la scoperta, a Roma, nella sede della Procura Generale Militare, del cosiddetto “Armadio della vergogna”, contenente 695 fascicoli sui crimini di guerra compiuti da nazisti e repubblichini, compresa la strage di cui parliamo.
Il 22 giugno 2005, dieci tra ufficiali e sottufficiali delle SS responsabili del massacro furono condannati all’ergastolo, in contumacia. La sentenza fu confermata dalla Corte di Appello Militare di Roma il 21 novembre 2006 e ratificata definitivamente dalla Cassazione l’8 novembre 2007. Ma le sentenze non furono mai eseguite.
Pure in questa vicenda possiamo rintracciare ciò che Hannah Arendt definì banalità del male: al pari di Eichmann, nel processo che si svolse a Stoccarda nel 2012, Ludwig Göring, reo confesso di aver trucidato venticinque donne inermi, affermò: “Non avevo scelta: un ordine è un ordine”. Ciò nonostante, il 1° ottobre del 2012 anche la sua posizione fu archiviata dalla Procura generale di quella città.
I familiari delle vittime fecero ricorso, sicché i primi di agosto del 2014 la Corte federale di Karlsruhe annullò la decisione della Procura di Stoccarda. Ma più tardi, a maggio del 2015, quella di Amburgo archiviò il procedimento contro uno dei peggiori criminali nazisti, Gerhard Sommer,di 93 anni, con la motivazione che egli non fosse in grado di affrontare il processo. Nel momento in cui scriviamo Sommer è ancora vivo.
Nel processo del 2004 furono le zie di Alberto, Alice e Ilde, a costituirsi parte civile; non lui, che ammette più volte, tramite Lorenzo, di non aver mai raccontato apertamente la sua storia e di non aver “fatto niente sulla memoria di Sant’Anna”.
Per un’altra beffa del destino, Alberto fu adottato da un fascista tutt’altro che pentito − era stato amico personale di Mussolini −, del quale assunse il cognome Pancioli (Guadagnucci era quello della madre). E non solo: per un certo periodo poté frequentare l’università grazie all’aiuto di un altro ottimo amico del Duce: Giovacchino Forzano, commediografo, scrittore, librettista (per Puccini e Leoncavallo), nonché regista di un filmato di propaganda, Camicia nera, girato per il decennale della marcia su Roma.
A tal proposito Alberto ammette, per penna del figlio, che a quel tempo l’adesione di Forzano al fascismo era per lui “un dettaglio irrilevante” (p. 140).
Si potrebbe dire, dunque, che è grazie al figlio se il padre compie o almeno porta a termine il percorso di elaborazione di una memoria straziante e perciò lungamente rimossa per poter sopravvivere. E’ una vicenda che ci ha evocato il romanzo di Elie Wiesel, L’oblio. Qui il padre del protagonista, un docente universitario, ebreo di origine romena, unico sopravvissuto d’una famiglia sterminata dai nazisti insieme con l’intero villaggio, temendo di perdere la memoria, incarica il figlio di riconquistarla col tornare nel proprio paese d’origine.