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Intervista a Jordi Muñoz: l’indipendentismo catalano al microscopio

16 Ottobre 2017

Abbiamo tradotto un’intervista a Jordi Muñoz, ricercatore di scienza politica all’Università di Barcellona, al quotidiano online Publico. Muñoz analizza le recenti vicende catalane concentrandosi sulla dinamica del movimento indipendentista catalano, il suo sviluppo, la sua composizione e i suoi rapporti con la società catalana e spagnola in generale e con la sinistra e i movimenti in particolare. Un’analisi concreta e approfondita, basata su un’osservazione scientifica e militante, che può essere utile a chiarirsi le idee su una vicenda complessa, superando le semplificazioni retoriche e interessate che circolano in queste settimane. Il quadro che emerge è quello di un movimento complesso e articolato, che, a partire da una storia di moderato autonomismo borghese, ha incontrato, nel contesto della crisi economica e della chiusura al dialogo della destra, l’indipendentismo di sinistra radicale e i movimenti, dando vita a un’esperienza interclassista e trasversale che rappresenta circa metà della società catalana. Un mondo in ebollizione, che adotta pratiche di resistenza dei movimenti e stabilisce nell’opposizione al governo di destra un asse con Podemos e la sinistra, la cui tenuta e le cui conseguenze sono tutte da verificare. Un fronte che, ad oggi, non ha una via chiara verso la vittoria e deve fare i conti con le profonde divisioni nella società catalana e con l’incomprensione, ai limiti dell’incomunicabilità, con buona parte dell’opinione pubblica spagnola. Riflessioni utili e stimolanti per una discussione imprescindibile.

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Intervista a Jordi Muñoz: “L’indipendentismo è diventato un elemento strutturale della società catalana”

Il politologo Jordi Muñoz spiega le ragioni di fondo del successo del sovranismo in Catalogna, e chiarisce che è venuto per restare. In gran parte, ciò è la conseguenza della strategia centralizzatrice del PP, con la collaborazione imprescindibile dei socialisti.

È pessimista, ma in maniera gramsciana, quella del pessimismo della ragione. Il politologo Jordi Muñoz (nato a Valencia nel 1979) non vede una soluzione semplice al processo sovranista. Crede che si incisterà per parecchio tempo, con due attori in posizioni opposte e difficilmente conciliabili. Da una parte, uno stato spagnolo in una posizione di “chiusura assoluta”, che è disposto ad arrivare a qualunque cose per impedire non solo l’indipendenza, ma anche un referendum concordato che dia “soluzione al conflitto”. Dall’altra parte, un settore maggioritario della società catalana, ugualmente disposto alla “resistenza” contro “l’autoritarismo”. Muñoz, che è diventato senza cercarlo uno degli analisti più richiesti su tutti i media, analizza in profondità nell’intervista a Públic il movimento sovranista, le sue cause e radici, la sua composizione e, per quanto possibile, la sua evoluzione futura.

Cos’è successo esattamente martedì in parlamento?

Quello che è successo era relativamente prevedibile [dichiarazione di indipendenza però in sospeso]. Sta all’interno dello spazio ristretto che aveva il governo catalano per riconoscere il risultato del referendum e le sue implicazioni – sebbene con una certa ambiguità – e al tempo stesso lasciare un margine per cercare una soluzione dialogata.

Una parte del movimento indipendentista pensa che si sarebbe dovuta proclamare l’indipendenza formalmente, proprio per avere più forza per negoziare.

È un’ipotesi. Finché non lo vedremo non lo sappiamo. C’è anche l’ipotesi contraria: quella che con un avvicinamento più cauto l’indipendentismo si carichi di ragioni e aumenti la comprensione delle sue posizioni nei settori che volevano tirare il freno e dare un’opportunità al dialogo. All’interno e all’esterno della Catalogna, e quelli all’interno credo siano i più importanti.

Il movimento sovranista, o parte di esso, invece, dà molta l’importanza all’opinione pubblica internazionale.

Sono molto scettico sul ruolo della comunità internazionale. Non dico che non sia importante, però credo ci si debba concentrare sulla Catalogna. Alla fine, siamo noi quelli che dobbiamo convivere tra di noi, e per questo sono importante i consensi interni che si possono costruire. Anche con delicatezza.

Ci sono indipendentisti che rifiutano la rottura, o che ne hanno paura?

Ci sono anche loro. Ed è logico che sia così. In una società tanto complessa e plurale come quella catalana, un movimento che raccoglie il 50% dell’elettorato è necessariamente molto differenziato al proprio interno, e ha molte contraddizioni e molte posizioni diverse. Questo è emerso ora che si è visto come il movimento indipendentista ha avuto molti nodi da affrontare e molte strategie diverse. Va riconosciuta, infatti, la capacità che ha dimostrato di arrivare a una certa unità d’azione. E c’è molta gente che non è nata per disobbedire alle leggi.

Lei ha segnalato in diverse occasioni che, per arrivare all’indipendenza, in un certo momento si sarebbe dovuto disobbedire.

L’indipendentismo ha abusato per molto tempo di un certo linguaggio naïf, anche se lo sta perdendo. Si è scherzato molto, parlando di manifestazioni di nonnine e di melensaggine [un giornalista ha paragonato la retorica del governo catalano alle canzoni zuccherose di Lucio Battisti, ndt], ma il movimento indipendentista è maturato e ha assunto la complessità della sfida e i suoi costi potenziali. Le immagini del 1 ottobre, di tanta gente di tutte le età e condizioni che difendeva i seggi elettorali, hanno reso visibile la perdita dell’innocenza dell’indipendentismo. La preparazione clandestina del referendum, inoltre, è una dimostrazione del fatto che l’indipendentismo è stato capace di andare al di là delle catene umane e delle magliette colorate, e che è un movimento sociale e politico con una capacità operativa molto importante.

E quindi, la “rivoluzione dei sorrisi”?

Tutti i movimenti hanno bisogno di mostrare il volto più gradevole delle proprie proposte. Fanno lo stesso i Comuni [i sostenitori di “Un Paese in Comune”, il nuovo partito della sindaca di Barcellona Ada Colau, ndt] con la rivoluzione democratica dell’Europa meridionale. Se Syriza avesse fatto la campagna elettorale dicendo: “Guardate, noi ci proveremo, però è quasi sicuro che non avremo successo, perché la struttura di potere della UE non ce lo permette”, non avrebbero vinto le elezioni. Se gli indipendentisti avessero detto: “Vogliamo l’indipendenza, però dato che lo stato spagnolo non ce lo permetterà in alcun caso, ciò sarà praticamente impossibile senza uno scontro molto forte”, non sarebbe andato da nessuna parte. Qualsiasi movimento deve iniziare presentando i propri aspetti più ottimisti. Poi le cose possono cambiare. Ci sono molte cose che sembrano impossibili e poi non lo sono. E ce ne sono che sembrano impossibili e continuano a esserlo. Ora, una cosa è evidenziare la parte gradevole del proprio discorso, un’altra è non trattare la popolazione come adulti.

Puoi fare qualche esempio?

Quello che è successo martedì in parlamento. C’è stata una gestione pessima. Due giorni prima, stavano spiegando alla gente qualcosa che non corrispondeva a quello che si stava discutendo dietro le quinte. Dal 1 ottobre stesso avrebbero dovuto spiegare le cose in maniera un po’ più trasparente. Se veramente la discussione era in questi termini – ed è ragionevole, data la risposta repressiva dello stato e la sua chiusura assoluta al dialogo – ci si sarebbe dovuti rivolgere con più trasparenza alla base del movimento indipendentista stesso.

Di fronte a questa chiusura al dialogo, il movimento indipendentista dovrebbe accontentarsi di qualcosa di diverso dall’indipendenza?

Fa parte del gioco provare a trasformare la realtà. Se si dà come immutabile la realtà del momento, si rinuncia all’intervento trasformatore sulla realtà. Tutti avremmo potuto pensare che la democrazia spagnola non avrebbe avuto la stessa maturità che dimostrò quella britannica con la Scozia. Ma allora dovevamo rinunciare a trasformare questa realtà? Io credo di no. Una gran parte della società catalana – e una parte non disprezzabile della società spagnola – pensa che arriverà il momento in cui la situazione si dovrà risolvere democraticamente, e che questo succederà naturalmente. Forse alla fine la Spagna preferirà la repressione più assoluta… però va bene darle un’opportunità. Di fatto, quello che è successo dal 1 ottobre è stato uno stress test della democrazia spagnola.

L’ha superato?

No. È evidente. Lo stato spagnolo ha molti strumenti a propria disposizione e non si fa troppi scrupoli a utilizzarli. Forse supererà questo stress test, come stato. Ma come democrazia, evidentemente, no. Una delle basi dei sistemi democratici è che devono rispondere alle richieste della cittadinanza. Le leggi non si possono applicare solo in maniera coercitiva, hanno bisogno del consenso della gente. Se no, è impraticabile. E la democrazia spagnola, in Catalogna, va verso un deterioramento molto improvviso.

Si sta iniziando a proporre una terza via?

Ne parlano quelli che sempre hanno girato intorno al tema in maniera speculativa. Siamo in un contesto in cui un vago appello alla possibilità che nel giro di sei mesi si dia inizio a un processo per riformare la Costituzione equivale a non dire nulla.

È esattamente quello che ha proposto il PSOE, anche a nome del PP.

È come non dire nulla. Altra cosa sarebbe invece una proposta concreta: “Modificheremo questo e questo articolo in questa maniera”. Quando sento parlare di una riforma della Costituzione concordata da PP, PSOE e Ciudadanos, quello che penso è che può andare in direzione centralizzatrice. E non vedo elementi che smentiscano il mio sospetto.

In questo senso, pare che il minimo che può accettare e il massimo che può offrire ognuna delle due parti non possano essere più lontani. Da una parte, una promessa vaga di riforma costituzionale, dall’altra, un referendum concordato.

Non sono molto ottimista sulla possibilità di trovare un punto d’accordo. Il PP e Ciudadanos, il nazionalismo spagnolo più radicale, sanno molto chiaramente che non ci sono margini, e il PSOE sta giocando questa partita. L’unica possibilità sarebbe che il PSOE si staccasse da questo blocco nazionalista e formasse una nuova maggioranza. E vedo molto difficile che questo succeda, per la composizione interna del PSOE e per il suo ambiente. Ricordiamoci quello che successe a Pedro Sánchez: neanche lo esplicitò, ci si limitò a insinuare che c’erano stati dei colloqui, e lo fecero fuori senza esitazioni.

Se non c’è accordo, verso c’è scenario andiamo?

È molto incerto. Uno scenario probabile è quello dell’incistamento del conflitto, del deterioramento del sistema democratico spagnolo, della limitazione della libertà d’espressione. Basta vedere le soluzioni che propone ad esempio Ciudadanos [partito populista di centrodestra, ndt], di applicare l’articolo 155 [della Costituzione, ndt] per sciogliere il parlamento e convocare nuove elezioni; a meno che non mettano fuori legge dei partiti [la legge spagnola prevede la possibilità di mettere fuori legge i partiti che possano “attentare a questo regime democratico di libertà”, com’è successo alle forze della sinistra indipendentista basca accusate di vicinanza al gruppo armato Eta, ndt], non c’è alcun indizio che nuove elezioni portino un panorama politico differente da quello di oggi.

Crede che la Catalogna possa rendere effettiva l’indipendenza per conto proprio, con l’opposizione dello stato spagnolo e l’indifferenza europea?

In termini di controllo del territorio? No. Diciamo che c’è una probabilità molto bassa. Non vedo i rappresentanti della Generalitat [il governo catalano, ndt] rivolgersi al battaglione che c’è nella caserma del Bruc e domandare loro gentilmente che inizino a marciare verso Los Monegros [area desertica in Aragona, poco oltre i confini catalani]. Mi pare che la logica dello stato spagnolo sia ancora molto nazionalista. Prima di perdere la Catalogna, sono disposti a molte cose: a perdere la democrazia e anche a restare isolati a livello internazionale.

Si capisce dal resto dello stato quello che sta succedendo in Catalogna?

C’è gente che lo capisce, c’è moltissima gente in più che ancora non lo capisce. Ci sono reazioni emozionali molto forti verso quello che succede a 600 chilometri di distanza, che di fatto dovremmo capire. Il fatto che una parte di quello che tu consideri il tuo paese ti dica che non vuole continuare a vivere con te ha una componente perfino offensiva a livello personale. Questo spiega perché gente che è molto ragionevole, tollerante, aperta, profondamente democratica, in questa tema concreto reagisca accettando come normale ad esempio la repressione del 1 ottobre. Forse con qualche leggera critica, però in fondo non discutono la chiusura dello stato nei confronti della celebrazione del referendum e della soluzione di questa storia. Inoltre c’è una ripetizione di schemi di trenta o quarant’anni fa, che restano inalterati, come i riferimenti al catalanismo borghese, e si interpreta la realtà attraverso questi schemi.

Perché succede questo?

Va detto che la società catalana è molto esposta al sistema mediatico del resto dello stato, però la comunicazione non è bidirezionale. I nostri amici di Madrid non sono per nulla esposti ai mezzi di comunicazione catalani e non sanno quali sono i termini del dibattito politico in Catalogna. Sono esposti, invece, a un sistema mediatico spagnolo che si è chiuso molto e che offre un racconto monolitico. Un racconto che parla di una società in cui si lava il cervello ai bambini nelle scuole, in cui c’è un totalitarismo che impedisce di esprimere il dissenso e delle élite che tramano. Questo racconto funziona, anche con gente apparentemente ragionevole.

Questo racconto funziona anche in Catalogna

Però se lo bevono solo settori fortemente ideologizzati, con preferenze spagnoliste molto marcate, perché la discrepanza con la realtà è molto evidente. La differenza è che nel resto dello stato se le beve anche gente molto normale e molto ragionevole su altri temi.

Per mancanza di conoscenza?

Per una combinazione di mancanza di conoscenza e di un meccanismo psicologico. In fondo, questo racconto dà risposta a una domanda lecita: “Perché se ne vogliono andare? Com’è che all’improvviso ci sono tante manifestazioni di gente in Catalogna che dice che non vuol più vivere in Spagna?” Una risposta relativamente comoda, che rassicura, è che “hanno lavato loro il cervello, con TV3 [la tv pubblica catalana] e le scuole”. Ciò non ha alcuna base empirica. TV3 ha lo share che ha, e la grande maggioranza delle persone che hanno partecipato alle manifestazioni non è stata educata nell’immersione linguistica [l’insegnamento delle normali materie scolastiche in una determinata lingua, in questo caso il catalano, ndt]. Molti sono stati educati prima della restaurazione della Generalitat [il governo catalano, abolito dal franchismo, fu restaurato nel ’77 durante la transizione alla democrazia, ndt]. La Generalitat ha il margine di influenza che ha. Non è un potere onnipotente come in Corea del Nord. Qui c’è sempre stato pluralismo dei media, il parlamento è sempre stato plurale e si sono sentite molte voci diverse. Non ha basi empiriche, ma è una risposta che rassicura.

Allora come lo spiegherebbe lei ai lettori del resto dello stato? Perché 10 anni fa alle manifestazioni dell’11 settembre [festa nazionale catalana, ndt] appena si vedevano bandiere stellate [cioè bandiere indipendentiste, ndt] e ora quasi non si vedono più versioni ufficiali della “senyera” [la bandiera ufficiale catalana, con le strisce gialle e rosse, senza la stella indipendentista, ndt]?

Tutto inizia dal fallimento dell’operazione dello statuto [lo statuto di autonomia catalano adottato nel 2006, quando sia la Catalogna sia il governo nazionale erano guidate dai socialisti, e poi bocciato nel 2010 da una sentenza costituzionale su ricorso del PP, ndt]. Lo statuto ottenne un consenso molto trasversale. Poi passò attraverso un processo di incomprensione molto forte nel resto dello stato, con il PP che raccoglieva firme e il PSOE che lo modificava indebolendolo. Anche così, questo statuto indebolito continuava a raccogliere sufficiente consenso nella società catalana, sufficiente per non far accadere nulla di quello che sta accadendo. E poi arriva la sentenza del Tribunale Costituzionale del 2010 che mette un limite molto chiaro su cos’è e cosa non è lo stato spagnolo. Su cosa può essere e cosa non può essere. Lo stato delle autonomie [il modello di articolazione geografica del potere stabilito dalla Costituzione del 1978, ndt] aveva funzionato grazie alla sua ambiguità intrinseca. Quello che alcuni vedevano come un punto d’arrivo, per altri era un punto di partenza. Una grande maggioranza della società catalana ha sempre voluto più autogoverno. Finché è durata quest’ambiguità, si pensava che ci fosse una via istituzionale percorribile. L’insuccesso dell’operazione dello statuto segna la fine di questa ambiguità. Da allora, lo stato delle autonomie è questo, e non può essere niente di più. Non può includere il riconoscimento nazionale della Catalogna [uno degli articoli contestati dello statuto del 2006 era proprio la definizione della Catalogna come nazione, in una Spagna plurinazionale, ndt] e non può mettere freno alle invasioni di competenza da parte dello stato. A questo punto, hai due opzioni: o sei soddisfatto dei limiti attuali, o non lo sei. E se non le sei, non ti restano molte opzioni che non siano oscillare verso il sovranismo.

Oltre a porre un limite all’ampliamento dell’autogoverno, quello che si è visto è stata una nuova centralizzazione.

Quello che fa la sentenza sullo stato è dire: “Si può arrivare fin qua”. Però non dice che non si possa tornare indietro. Poi c’è stato un fattore molto importante, il ritorno al potere del PP alla fine del 2011, la crisi economica e l’uso ideologico di questa crisi per ricentralizzare la struttura del potere in Spagna, come quando, caricando il peso dei tagli sulle comunità autonome [le regioni nel sistema istituzionale spagnolo, ndt], queste si sono ritrovate in una situazione di stretta supervisione. Se aggiungiamo il ricorso sistematico contro praticamente qualsiasi legge approvata dal parlamento [catalano, ndt] di fronte a un Tribunale Costituzionale che non è molto interessato a disattivare quest’uso politico, troviamo che di fatto l’autonomia si è molto ridotta. Nel 2010 c’era una parte importante della società catalana scontenta dello status quo, ora questo status quo si è spostato verso una ricentralizzazione.

Il Tribunale Costituzionale, di fatto, ha sospeso leggi catalane con poco o nessun contenuto “nazionale”.

Sì, perché la questione è la possibilità che il parlamento di Catalogna legiferi in maniera diversa dal resto dello stato. Non è un problema di contenuto, simbolico, sentimentale o nazionale delle leggi. Non è che qui si facciano leggi per fare in modo che si ascolti Els Segadors [l’inno catalano, ndt] ogni mattina. Sono state fatte leggi per affrontare problemi di fiscalità, di casa, o di povertà che sono state sospese. Tutto si concretizza nel fatto che si tratta di un esercizio di autonomia politica del parlamento catalano che il governo spagnolo non accetta. Questo, di fatto, rende impossibile il funzionamento normale dell’autonomia.

Pertanto, il PP ha favorito il successo dell’indipendentismo?

Non solo il PP. La concezione del nazionalismo spagnolo più tradizionale che è rappresentata dal PP e dal suo ambiente mediatico è molto lontana da ciò che pensa la maggior parte della società catalana. E la distanza si è ampliata. Ci fu un momento, intorno al 2000, in cui il PP fece un’operazione per radicarsi nella società italiana, con Josep Piqué [ministro nei governi di Aznar e leader dei popolari in Catalogna a cavallo del 2000, ndt]. Questa operazione non ebbe troppo successo. E ora hanno molto chiaro il fatto che non sono un partito competitivo in Catalogna e che non lo saranno mai, almeno nel medio termine. Ormai non competono più per i voti dei catalani. Hanno una presenza in Catalogna molto ridotta e molto ideologica, che rappresenta lo spagnolismo più radicale e che li accompagnerà qualsiasi cosa facciano. Pertanto, non sentono la necessità di rivolgersi alla maggioranza della società italiana. E al PSC [federazione catalana del partito socialista, ndt] succede una cosa simile. Il suo calo negli ultimi anni fa in modo che sostanzialmente abbiano rinunciato ad essere un partito maggioritario in Catalogna. Questo vuol dire che i due partiti con più possibilità di guidare il governo in Spagna sono minoritari in Catalogna, e non si rivolgono alla maggioranza dei catalani. Questo è molto pericoloso e può solo peggiorare le cose.

Può essere che il PP stia favorendo l’indipendentismo di proposito, perché conviene ai suoi interessi?

È un’ipotesi. Io credo che semplicemente abbiano preferenze nazionaliste molto forti, e le mettano in pratica. Se ciò ha come conseguenza che l’indipendentismo in Catalogna cresce, non li preoccupa troppo. Fanno quello che credono di dover fare, cioè preservare l’unità della Spagna e l’integrità della nazione spagnola. Se questo provoca protesta e instabilità… per loro è più importante l’unità della Spagna che l’instabilità politica e la convivenza sociale in Catalogna.

Com’è al suo interno il movimento indipendentista?

Nel 2012 si fece uno studio che mostrava la trasversalità interna dell’indipendentismo. Ti rendevi conto che la gente che diceva che avrebbe votato “Sì” a un referendum era divisa più o meno a metà. Metà puramente indipendentista e metà federalista, gente a cui, quando offrivi un ventaglio più ampio di opzioni sceglieva uno stato in una Spagna federale, ma se poteva scegliere solo tra “Sì” e “No” sceglieva no. Questo nel 2012. Oggi, se replichiamo lo stesso studio, le proporzioni non sono più 50-50 ma 80-20 a favore dell’indipendentismo puro. La preferenza indipendentista si è cristallizzata. In parte, perché la via federalista non è vista come fattibile. E c’è anche un altro punto interessante. Abbiamo sempre pensato che la preferenza per l’indipendentismo corrispondesse in sostanza all’identificazione nazionale. La gente che si sente solo catalana ha più probabilità di essere indipendentista di chi si sente catalano e spagnolo. Ma l’indipendentismo è cresciuto molto senza che sia cambiata in maniera significativa l’identificazione nazionale della popolazione catalana. Tutto ciò porta a pensare che l’indipendentismo si sia trasformato in un elemento strutturale nella popolazione catalana. Chi diceva che era un “soufflé”, un momento di eccitazione, che sarebbe calato quando fosse finita la crisi, si sbagliava di grosso. E si sbagliava anche chi pensava che l’indipendentismo sarebbe continuato a crescere fino al 70%. Sta avendo una crescita molto lenta, e al suo interno si è solidificato.

Potremmo dire che l’indipendentismo ha sostituito il catalanismo, che ebbe l’egemonia per decenni in Catalogna?

Sì. E ciò ha altri effetti. Il nazionalismo autonomista aveva più capacità di parlare e di formare maggioranze nel parlamento spagnolo, così come di formare maggioranze in Catalogna con partiti di livello statale. Oggi questo è più difficile. Soprattutto se il terreno comune del referendum non esiste.

C’è una tesi che dice che settori della sinistra emersi intorno al 15M [il cosiddetto movimento degli indignados, ndt] si siano avvicinati all’indipendentismo, in parte come espressione di scontento.

Nella risposta all’autoritarismo dello stato del 1 ottobre si è resa evidente questa connessione, anche esplicitamente. Abbiamo visto gruppi legati al 15M difendere scuole. Questo ha un potenziale di riallineamento delle maggioranze e formazione di coalizioni. Il problema è che è molto difficile che si cristallizzi. Se l’indipendentismo, al suo interno, è ormai un artefatto politico molto complesso e molto differenziato, se va più in là, la complessità aumenta. E aumenta la difficoltà di costruire un’unità d’azione che vada al di là della resistenza all’autoritarismo. Però sì, c’è una certa connessione.

Cos’è successo perché gruppi che cinque anni fa erano molto lontani ora siano confluiti, almeno in parte?

La chiusura dello stato. Ci fu un primo momento di vicinanza, sul diritto a decidere. Poi l’indipendentismo non riuscì a capire il 15M e il suo riflesso politico in Podemos, li vive con una certa scomodità. D’altra parte, i settori più favorevoli al diritto a decidere ma non indipendentisti vedono un’opportunità per costruire una propria egemonia alternativa, che li porta, ad esempio, al Comune di Barcellona [dove nel 2015 l’attivista per il diritto alla casa Ada Colau fu eletta sindaca a capo di una coalizione composta da Podemos, la sinistra radicale e alcuni settori di movimento, ndt]. Quello è il momento di massima distanza tra i due attori. Ma quando si conferma che, piuttosto che permettere la rivoluzione democratica di Podemos, quello che farà lo stato sarà una grande coalizione tra PP e PSOE, e quando si conferma che piuttosto che parlare con l’indipendentismo per trovare una soluzione dialogata manderanno 10 mila poliziotti, l’ambiente cambia per entrambi gli attori. E cambia la struttura degli incentivi, che li porta a una certa confluenza, di livello minimo democratico. E la cosa andrà avanti in questa direzione. Nello stesso modo in cui vedo lo stato molto deciso a fare qualsiasi cosa piuttosto che permettere un referendum, vedo anche la società catalana molto decisa a resistere. Il senso comune di questa società dice che questo si dovrebbe decidere in un referendum, e ha un appoggio molto trasversale. E il senso comune di questa società dice che la risposta poliziesca e autoritaria è inaccettabile. Nello stesso modo in cui lo stato non si dà per vinto, vedo anche la società catalana molto ben equipaggiata per resistere a questi colpi.

Fuori dalla Catalogna questa percezione sicuramente non è maggioritaria. Esiste l’immagine della Catalogna come una società borghese, che indietreggerà quando arriverà il primo poliziotto.

Questo si è visto molto chiaramente il 1 ottobre. Ai seggi c’era gente la cui cultura politica già include questo tipo di azioni. Ma c’era anche tanta gente che non aveva mai visto da vicino un celerino in vita propria. Credo che neanche gli indipendentisti sapessero di avere questa capacità di resistenza. Con la brutalità della risposta si è toccata una fibra che ha dimostrato di avere molto potenziale.

Oltre alla capacità di resistenza, è ancora più chiaro che hanno capacità di organizzazione.

Sì. Il movimento indipendentista, che ha anche commesso molti errori, ha avuto l’intelligenza di creare strutture molto solide e molto forti, ha accumulato conoscenza e ha creato reti molto ben organizzate. Che in parte hanno permesso che il 1 ottobre ci fossero le schede elettorali, con tutto l’apparato dello stato contro. Questa è una delle cose che lo stato ha provato a distruggere, con ispezioni dei libri contabili, chiusura di siti web e processi contro i leader di organizzazioni. Ma è arrivato tardi, perché questa capacità organizzativa ormai è stata costruita.

Ha appena menzionato i “molti errori” dell’indipendentismo. Quali?

Sopravvalutarsi. In troppe occasioni, gli indipendentisti hanno pensato di avere già vinto. Che già avevano vinto la battaglia dell’opinione pubblica catalano, che già avevano conquistato una maggioranza sociale incontestabile e indistruttibile. Sopravvalutarsi spesso porta ad agire in maniera prepotente, a essere un po’ antipatici con chi ti è vicino ma non è esattamente parte del tuo gruppo, o a sviluppare un’identità di gruppo molto forte che ad altri risulta estranea. Dobbiamo anche pensare che ci sono zone della Catalogna in cui l’indipendentismo è superegemonico e dove è difficile non cadere nell’idea che tutto il mondo sia come te.

Se c’è stata una certa alleanza tra l’indipendentismo e i settori sorti dal 15M, ce n’è un’altra che pochi anni fa sembrava ancora più contro natura: quella dell’ambiente della CUP [Candidatura di Unità Popolare, il soggetto politico della sinistra radicale indipendentista, ndt] con l’indipendentismo di destra, quelli che, quando i primi manifestavano, gli mandavano la celere.

La chiusura dello stato è quello che ha reso possibile tutto ciò. È ciò che ha spinto il centrodestra catalanista dell’ordine verso l’indipendentismo. E a difendere la disobbedienza, con il mondo della vecchia Convergència [partito nazionalista catalano di centrodestra, storicamente maggioritario, recentemente trasformato in PdeCat, il partito indipendentista guidata dal presidente Puigdemont, ndt] che si muove verso posizioni storicamente difese dalla sinistra indipendentista. Non significa che non ci siano contraddizioni all’interno di entrambi gli attori. Però questa convergenza di settori ideologici tanto diversi dovrebbe far riflettere la gente del resto dello stato che osserva l’indipendentismo con lenti impolverate.

Come si spiega che chi è stato per tutta la vita una persona d’ordine passi a difendere la disobbedienza alle leggi? E a pensare che questo gli possa servire?

Se si osserva dal punto di vista dell’interesse individuale, sicuramente starebbe meglio senza rischiare che la polizia lo picchi o che lo arrestino. Però si produce un movimento collettivo che cambia il calcolo. Il calcolo passa da essere puramente individuale a essere collettivo. C’è qualcosa di quello che sta succedendo in Catalogna che per me, come osservatore e scienziato sociale, è particolarmente affascinante. I movimenti sociali hanno diversi meccanismi di protesta e normalmente quello che vediamo è che i meccanismi che costano meno sono i più di massa, mentre quelli che costano di più sono più minoritari. È quasi meccanico. Più duro si fa il conflitto, più restano solo i duri. Invece qui il conflitto si è intensificato, il costo è aumentato – perché uscire a votare il 1 ottobre aveva un prezzo potenziale molto più alto che andare a votare il 9 ottobre [2014, referendum informale consultivo organizzato dal governo catalano, ndt] o manifestare l’11 settembre – e invece non si è ridotto il volume di gente, anzi è persino aumentato.

È aumentato il costo ma si vede anche più vicino il potenziale beneficio?

È una possibile spiegazione. Ma ci sono sondaggi che hanno domandato: “Crede che andrà a finire con l’indipendenza?” E la percentuale di gente che lo pensa è molto meno bassa di quella della gente che vuole l’indipendenza o che è andata a votare per l’indipendenza. Credo che una delle spiegazioni sia la consapevolezza che se non si mantiene la resistenza, la situazione evolverà nella direzione contraria: verso la ricentralizzazione e l’autoritarismo, verso il deterioramento della democrazia.