Dentro il centro di detenzione di Moria, nell’isola di Lesbo
2 Luglio 2017
“Moria è la cosa più vicina alla torre di Babele che io conosca”, dice Sophia Koufopoulou, antropologa e sociologa greca che insegna all’università del Michigan, negli Stati Uniti, mentre ferma in maniera brusca la sua auto davanti al centro di detenzione più conosciuto di tutta la Grecia. Nell’hotspot di Moria, sull’isola di Lesbo, sono trattenuti i migranti irregolari arrivati dopo l’entrata in vigore dell’accordo tra Unione europea e Turchia nel marzo del 2016.
Sophia è arrivata a Lesbo da qualche settimana per partecipare con i suoi studenti a dei corsi estivi di volontariato nella sezione minorile del centro. “Moria è un labirinto dove vivono persone di decine di nazionalità diverse: ognuno nel suo settore, le donne con le donne, i minori con i minori, i maschi soli con i maschi soli. Da qualche settimana sono aumentati gli arrivi dalla Turchia e nel centro di detenzione sono trattenute anche molte famiglie con bambini piccoli”, spiega la ricercatrice mentre cammina rapidamente verso l’ingresso del centro.
Dopo alcuni incidenti avvenuti lo scorso inverno, la recinzione esterna è stata rafforzata: un muro bianco circonda il campo, sovrastato da una rete e da una corona di filo spinato. Dopo la recinzione, c’è qualche metro di vuoto, la casupola di ferro di un secondino che svetta nell’azzurro del cielo, poi una nuova recinzione al cui interno ci sono dei container bianchi e grigi: parallelepipedi regolari montati uno a fianco all’altro. In ogni container dormono dieci o quindici persone, su letti a castello. Non hanno armadietti, non hanno nessuno spazio privato, usano qualche vecchia coperta di lana grigia come una tenda intorno al letto, per riprodurre un’idea d’intimità.