Possono forse morire le rivoluzioni?
di Javier Tolcachier, Pressenza, 27.11.2016. A poche ore dalla firma della pace tra la guerriglia più antica della regione e il governo colombiano, quasi come un simbolo della fine di un grande ciclo di insurrezioni armate nella storia latinoamericana, è uscito di scena uno dei suoi principali protagonisti, il comandante Fidel Castro Ruz.
Non si può però parlare di Fidel senza parlare della sua amata Cuba, di secoli di saccheggio coloniale, di canna da zucchero, di astuzie e frantoi, di tabacco e frustrate, di generazioni di schiavi, di indegni proprietari terrieri arricchiti grazie alla sofferenza, al lavoro e al dolore altrui.
Per questo, parlare di Fidel significa raccontare l’indipendenza, ricordare Céspedes (padre), Maceo, García, Gómez e altri cento, ma soprattutto significa richiamare l’enorme influenza del grande poeta e rivoluzionario José Martí, i cui versi “di un verde chiaro e di un rosso acceso” fecero battere forte il cuore di chi, cent’anni dopo la sua nascita, compì il gesto eroico di abbattere la tirannia di Fulgencio Batista e sciogliere il piombo del dominio gringo.
Parlare di Fidel significa innanzitutto dire Moncada, Granma e Sierra Maestra, significa parlare del Che, di Camilo, di Raúl, di Frank e di tanti altri, significa ricordare l’8 gennaio e l’entrata della rivoluzione a L’Avana.
Parlare di Fidel significa anche parlare di boria e audacia e ammirare il coraggio di chi, a pochissima distanza dalle grinfie dell’aquila yankee, ha dovuto sopportare vessazioni, invasioni, attentati, cospirazioni e un embargo antico quasi come la rivoluzione, il cui proposito era quello di tentare di spegnare la fiamma della libertà nell’isola. Non si può parlare della rivoluzione cubana senza parlare di assedio e di un mondo diviso e in guerra.
Parlare di libertà a Cuba non significa vivere a Miami e riempirsi la bocca di invettive e il portafoglio di banconote, senza riconoscere un’opera di umanizzazione in mezzo e davanti alle avversità. Un popolo in cui cinque persone su sei non sapevano né leggere né scrivere è stato completamente alfabetizzato e liberato dalla denutrizione e oggi ostenta l’indice di mortalità infantile più basso della regione. Parlare di libertà significa contare su un’istruzione e una medicina avanzate e aiutare a liberare altri.
Parlare di Fidel significa anche ricordare l’appoggio solidale della rivoluzione cubana ai movimenti di liberazione in Africa, significa parlare di Angola, Etiopia, Congo, Guinea Bissau, Namibia e Mozambico, significa parlare di restituire la dignità agli usurpati, agli schiavizzati e ai maltrattati. Significa anche restituire la vista a migliaia di poveri, combattere le epidemie in Africa e fornire aiuti medici a più di cento nazioni del pianeta. Praticare la libertà e non solo parlarne significa dare l’esempio di condividere ciò che si ha per favorire altri popoli. Fidel e Cuba hanno globalizzato la solidarietà in contrapposizione al saccheggio e agli abusi.
Dire Fidel significa anche ricordare come un’enorme quantità di giovani si sia sentita chiamata a lottare per i diritti delle maggioranza con la parola, con l’organizzazione, con la protesta e le rivendicazioni popolari. Davanti alla persecuzione, l’ostracismo e la violenza infinita dei tiranni, quei giovani hanno visto a partire del successo della rivoluzione cubana la scelta eroica e tragica della sollevazione armata come l’unica possibilità.
La repressione di quell’ondata di ribellione ha causato infiniti dolori, ma ha anche alimentato le speranze, i trionfi e la mareggiata rivoluzionaria che ha animato le migliori aspirazioni del governo socialista di Allende e della vittoria sandinista in Nicaragua e che oggi continua a vivere nel Venezuela di Chávez e Maduro, nel governo del FMLN in Salvador e nella Bolivia di Evo. E’ arrivata con le sue onde trasformatrici fino alle spiagge della memoria dei protagonisti della Rivoluzione Cittadina in Ecuador, dei governi del PT in Brasile, ha lambito le parti migliori dell’Argentina kirchnerista e del Frente Amplio uruguaiano e ha promosso i brevi tentativi di rompere l’assedio in Honduras e Paraguay. E continuerà a vivere, con sfumature distinte, nella coscienza libertaria di milioni di sudamericani consapevoli che un altro stile di vita e di organizzazione sociale è necessario, imprescindibile e soprattutto possibile.
Parlare di Fidel significa parlare di sovranità e di integrazione regionale, di resistenza e azione davanti all’ingiustizia, di cambiamento e di ribellione davanti alla violenza del sistema e all’apparente determinismo. Si possono dire molte altre cose, ma parlare di Fidel significa soprattutto parlare di rivoluzione.
Dicono che Fidel è morto, ma questo è semplicemente impossibile. Possono forse morire le rivoluzioni?
Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo