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Il welfare buono dei migranti, che al Sud crea ricchezza e lavoro

5 Novembre 2016

A Sant’Alessio in Aspromonte, 357 abitanti, il progetto Sprar per i rifugiati è diventato un modello che anche all’estero vogliono replicare. “C’è un aspetto umanitario, ma c’è anche una ricaduta economica e occupazionale per il territorio”, assicura il sindaco

Trecentocinquantasette abitanti. Più 35 rifugiati. Fanno una popolazione di 392 persone. Nel comune di Sant’Alessio in Aspromonte, a mezzora di macchina da Reggio Calabria, hanno creato un modello di accoglienza per richiedenti asilo che ora anche all’estero vogliono replicare. Il sindaco Stefano Calabrò è appena tornato dal Portogallo, dove ha spiegato ai politici locali come si fa ad accogliere un gruppo di migranti in un piccolo centro come il suo, senza provocare barricate e malumori. Con ricadute positive su un territorio altrimenti a rischio spopolamento. «È un welfare a due facce: per la gente del luogo e per i migranti che vengono accolti», dice Calabrò. «C’è un aspetto umanitario che è prioritario, ma non si deve nascondere che esiste anche un ritorno economico per la comunità. Il segreto è comprendere quello che vogliono gli uni e gli altri». E alla fine la solidarietà ripaga. Letteralmente.

Dal 2013 il piccolo comune calabrese fa parte del Sistema di protezione per richiedenti asilo, meglio conosciuto come Sprar. È l’accoglienza programmata (non quella straordinaria), quella che rispetta alti standard qualitativi, sulla quale il governo vuole puntare. Il comune partecipa al bando indetto dal ministero dell’Interno e dà avvio a un progetto per la sistemazione e l’integrazione dei migranti. Da quest’anno, poi, i progetti avviati a Sant’Alessio sono due: quello “ordinario”, e quello per le categorie più vulnerabili.

Ad oggi, su 35 posti disponibili, nel paesino si trovano 16 richiedenti asilo. Alcuni sono usciti dal sistema Sprar per raggiungere i familiari in altri Paesi europei, altri stanno per arrivare. La maggior parte viene dall’Africa subsahariana, ma c’è anche una famiglia di curdi iracheni. Non è la prima volta che in paese hanno a che fare con l’immigrazione: dagli anni Novanta in poi nel comune si sono stabilite famiglie di romeni e magrebini, ormai perfettamente integrate.

«Da qui abbiamo capito che si poteva lavorare anche con l’accoglienza dei rifugiati», dice Luigi De Filippis, medico e responsabile dell’equipe Sprar di Sant’Alessio. Prima dell’arrivo dei rifugiati, la popolazione è stata informata. E De Filippis, che è medico reumatologo, in occasione della giornata dell’osteoporosi ha effettuato visite specialistiche incontrando gli anziani del paese, cioè la maggioranza della popolazione. «Abbiamo spiegato», racconta, «che è un progetto con un aspetto umano, ma che poteva avere una ricaduta economica e occupazionale importante sul territorio».

«È un welfare a due facce: per la gente del luogo e per i migranti che vengono accolti», dice Calabrò. «C’è un aspetto umanitario che è prioritario, ma non si deve nascondere che esiste anche un ritorno economico per la comunità. Il segreto è comprendere quello che vogliono gli uni e gli altri»
Dei 40/60 euro a persona al giorno che arrivano per la gestione del progetto Sprar, 2,50 euro vanno ai migranti per il pocket giornaliero, il resto rimane in paese. Creando un indotto positivo. «Le figure necessarie alla gestione del progetto vengono cercate tra le competenze sul territorio», spiega il sindaco. «Grazie allo Sprar, sei giovani del paese che altrimenti sarebbero andati via invece sono rimasti». L’equipe è composta da un medico, un infermiere, un operatore legale, un mediatore linguistico, un insegnante di italiano, uno psicologo e un assistente sociale. «Tutti giovani professionisti laureati che non avrebbero trovato lavoro qui», dice il primo cittadino. «Aiutando i rifugiati abbiamo evitato anche nuova emigrazione dalla Calabria».

Non solo. Il comune ha pubblicato un avviso pubblico per cercare immobili adatti ospitare i migranti. «In questo modo abbiamo stipulato otto contratti di affitto e riaperto case che altrimenti sarebbero rimaste vuote», racconta il sindaco. «Questo ha un ritorno economico per i proprietari, ma anche per il Comune, perché significa Tari, Tasi e altre tasse in più che entrano nelle casse pubbliche. E vedere qualche luce in più accendersi alla sera è anche un conforto per chi abita in paese». Appartamenti, quindi, e non centri di accoglienza isolati come spesso accade. «Questo», dice il sindaco, «è una scelta per dare maggiore autonomia a queste persone. L’obiettivo è formare cittadini, non solo dare assistenza».

I rifugiati ricevono quattro euro al giorno per fare la spesa, cinquanta euro a bimestre per il vestiario. Devono prendersi cura delle abitazioni che occupano, frequentano le scuole e i corsi di italiano. Le botteghe, gli alimentari, le farmacie del paese e dei comuni limitrofi guadagnano nuovi clienti. E l’arrivo dei migranti con i figli per prima cosa ha evitato la chiusura della scuola del paese. Il comune, poi, ha messo a disposizione pure un bus e un autista per accompagnare i rifugiati nelle scuole di Reggio Calabria. E alcuni dei ragazzi quest’anno hanno conseguito la licenza media.

«Grazie all’avvio del progetto, sei giovani del paese che altrimenti sarebbero andati via invece sono rimasti», spiega il sindaco. Tutti giovani professionisti laureati che non avrebbero trovato lavoro sul territorio. Aiutando i rifugiati abbiamo evitato anche nuova emigrazione dalla Calabria»
Sant’Alessio è stato premiato dall’Anci tra i dieci comuni con il migliore progetto Sprar. E Calabrò, dal suo piccolo centro di meno di 400 anime, è nell’elenco dei cento sindaci più influenti d’Europa. I rifugiati raccontavano alle proprie ambasciate quello che accadeva nel paesino dell’Aspromonte. E l’esempio di Sant’Alessio è diventato noto anche all’estero. Tanto che circa il 20% di chi passa da qui decide di non andare via allo scadere dei sei mesi del progetto, ma di restare.

La domanda che a questo punto molti si pongono è: cosa farà mai un rifugiato nella Calabria profonda, sempre più depressa e senza lavoro? «Ci vogliono piccoli sani egoismi perché le cose funzionino», risponde De Filippis. «È come incrociare domanda e offerta. Sviluppiamo un piano individuale per ciascun rifugiato che arriva qui, incrociandolo con le richieste del territorio ed evitando lo sfruttamento della manodopera immigrata».

Uno strumento che si è rivelato utile sono i tirocini formativi nelle imprese della provincia, che molto spesso si sono trasformati in vere e proprie assunzioni. È successo a un rifugiato pakistano, assunto da un falegname reggino, che a suo tempo è stato emigrato in Svizzera. Un altro, invece, dopo un tirocinio in una cooperativa che si occupa della gestione del verde urbano, ha contribuito a sua volta a fondarne un’altra. E un perito informatico egiziano si è rivelato una risorsa per tutto il paese.

«Queste persone diventano così un vantaggio per tutti», dice De Filippis. I rifugiati sono parte della comunità. Sono scesi in strada per la sagra del paese, hanno festeggiato in piazza il Capodanno, e hanno partecipato alla cena solidale per i terremotati. E alla cooperativa che gestisce il progetto, la Coopisa, il sindaco ha dedicato anche un ufficio nel palazzo del municipio. «Per far capire alla comunità che si lavora in simbiosi con il comune», dice Calabrò. «Non è semplicemente la cooperativa a cui è stato dato in gestione il servizio. È una precisa scelta politica».

Sant’Alessio ha fatto da apripista nella valle del Gallico. Ora anche altri comuni limitrofi hanno partecipato al bando Sprar. E da diverse parti della regione chiedono spiegazioni su come funziona il modello Sant’Alessio per replicarlo. «Progetti come questo funzionano bene nei piccoli comuni come il nostro che rischiano di spopolarsi. Certo non è la panacea a tutti i mali, ma in questo momento è la soluzione principale», dice il sindaco. «Grazie allo Sprar qualche coppia giovane ha trovato lavoro qui ed è rimasta, i bambini popolano le scuole, e i commercianti tengono aperte le botteghe». L’accoglienza, quella fatta bene, alla fine ripaga. E l’aiuto è reciproco.

I rifugiati ricevono quattro euro al giorno per fare la spesa, cinquanta euro a bimestre per il vestiario. Devono prendersi cura delle abitazioni che occupano, frequentano le scuole e i corsi di italiano. Le botteghe, gli alimentari, le farmacie del paese e dei comuni limitrofi guadagnano nuovi clienti. E l’arrivo dei migranti per prima cosa ha evitato la chiusura della scuola